TV

 

 

Aspettavo mia moglie. Era il giorno prima dell’inizio dei saldi e sarebbe arrivata molto tardi. Guardavo la tv. Un quiz orribile. Un concorrente maschio ed una concorrente femmina interrogati a tappeto.

 

“Chi ha scritto la Locandiera?”

“Risposta: non lo so.”

“Dai vi do un aiuto… Carlo?”

“Carlo Conti!”

“Ma no, Carlo Goldoni!!!”

“E la protagonista si chiamava Mi?”

“Mi?”

“Miran?”

“Miranda!”

“No quello era di Tinto Brass?”

“Mirando?”

“Mirandona!”

“Mirandolina signori, Mirandolina per diana!”

 

Schifato cambio canale.

La vecchia nonna che non sbaglia mai candeggio: la figlia dice che risparmia nel comperare la candeggina. Peccato la scena si svolga sulla terrazza di una villa i cui proprietari io dubito debbano economizzare sui costi della candeggina.

 

Schifato cambio canale.

Furore furore furore na na na na.

Trasmissione musicale che fa emergere lo schifo all’ennesima potenza:

cantano tutti, anche chi è stonato, tette di fuori, culi lo stesso.

 

Spengo la tv. Mi metto a scrivere e penso che mia moglie non è ancora arrivata e che per la cifra di straordinari che le verrà messa in bustapaga, al massimo uno potrebbe uscire dieci minuti dopo ma non certo arrivare a cena alle 23.

Poi penso, con lo stesso schifo con cui cambiavo canale, che tutto gira come al solito intorno ai soldi, e che chi cantava e interpretava lo spot in tv, e anche il proprietario politico delle stesse emittenti, sudano molto meno di chi come me e mia moglie lavora duro, ma guadagnano molto di più.

 

Ho riacceso la tv.

Dio mio Gigi D’Alessio.

Spengo la tv. Almeno lei con un pulsante la si può spegnere o ci si può cambiare canale, gli uomini no. Non c’è un telecomando per cambiare volti o cervelli. Peccato davvero.


LA RUSSA

 

 

Gli intrighi erano tanti e di alta qualità. Sembrava divenuta una soap opera, proprio di quelle che lui non sopportava. Carla e Adriano si erano lasciati e già avevano alle spalle i loro rispettivi matrimoni falliti, di cui rimaneva solo un figlio per parte a spasso per la Toscana. Franca e Cristiano parevano una bella coppia, ma lui era divorziato e forse la tradiva già; lei stava lì a farsi prendere in giro, mentre lui inventava caroselli ad ogni culo che Ricci faceva passare su Canale 5. Gabriele stava lì, in agguato, anagraficamente il più piccolo, ma non uno sprovveduto, col suo fare ferreo e duro, ad adocchiare occhi e seni e mani di ladruncoli nei supermercati. Single? Tradito? Traditore? Nessuno lo sapeva e lo capiva. Antonio stava sempre lì, in mezzo, anonimo, a fare presenza e dire 2 o 3 parole a week-end. Marzia e Mauro, fino a poche settimane prima, sembravano il fiore all’occhiello di un gruppo che pareva l’armata Branca Leone. Invidiati, coi loro lavori e le loro quattordicesime, i loro finanziamenti accettati per l’auto e la casa, il loro viaggio di nozze e il loro saper uscire dai problemi gravi di lui e soprattutto di lei. Già, ma fino a poche settimane prima. Quella sera infatti avrebbero dovuto fare un anno di matrimonio, se tutto non fosse andato storto. Invece Gabriele e Carla pomiciavano sui sedili di una Citroên blu. Adriano era di turno e doveva fare da palo a un tradimento di Cristiano, mentre Franca era a casa a vedere un film italianamente stupido. Marzia era a casa sola, o almeno si sentiva tale, anche se la sua stupida madre era a pochi metri a impastare la solita pasta per le solite melanzane, dopo aver pulito il solito servito uguale per tutti e tre i figli lobotomizzati dalla chiesa, dai soldi e dal mattone e da un padre fascista e orco che nascondeva il suo essere dietro falsi acciacchi fisici. Avrebbero dovuto, invece… Mauro era lì, a ricucire foto strappate, a leggere libri e pagine e fogli di dediche e bigliettini di auguri, a pensare a come non è discutibile il Big bang o Napoleone, a come son discutibili i miracoli dei pani e dei pesci, a come son duri e veri i miracoli delle mamme casalinghe e mogli che arrivano al 31 de mese non in rosso. Mauro era lì, consapevole di tutti i pochi suoi errori, pochi ma vitali, conscio di tutti i giudizi su lui e lei, su un loro che era nato per essere ed era morto per avere. Lei stava aspettando il citofono suonare, era un Diego o un Alessio, a cui aveva già dato l’ok per metterle le mani tra le cosce, con gelatina, auricolare e giacca da 700 euro a fare pendant con gli interni di un’auto da ricco, non pagata con rate di cambiali. Lui era lì, solo ma libero, solo ma ateo, solo ma comunista, solo ma coerente e povero di soldi, ma ricco di tutto il resto che serve per vivere, conscio di quel gruppo di armata Branca Leone e del suo non più vero legame, conscio che in quel letto a giorni sarebbe entrato il ricco proprietario della giacca da 700 euro. Piangente davanti a se stesso di emozione, vomitante mondo a pensare al resto. Un resto fatto di lei e della sua infanzia sola e cattiva e sbagliata, con ripercussioni colossali sulle prime amicizie, sulle canne ed il sesso ed il primo menarca ed i baci rubati e stupidi, su genitori falliti, coniugi falliti, nonni falliti, fratelli egoisti, sorelle lacerate dai portafogli pieni, da un mondo fatto di De Filippi e Grande Fratello, di Ignazi La Russa sparsi per le case del nord e del sud… di vite sprecate e di pochi libri e pochissimi tramonti emozionanti.


SEMBRAVA TUTTO MA NON CERTO QUELLO CHE SAREBBE STATO

 

 

Quando si erano conosciuti sembrava tutto… ma non certo quello che sarebbe stato…

 

Avevano molto, troppo in comune. Ma non avevano assolutamente nulla in comune. Volevano essere. Ma pareva fossero destinati solo ad avere o non avere.

Lei faceva da madre ad un figlio non suo, ma di un fratello e di una cognata che non erano minimamente innamorati né orgogliosi d’essere l’una accanto all’altro. Faceva da baby-sitter al piccolo… ma era una laureata in Lingue che insegnava alle scuole elementari, abituata a sentirsi dire dai pargoli di buon gusto che da grandi avrebbero voluto una moglie come lei. Ed era anche tuttofare di casa, dato che la madre da tempo lottava non tanto con la vita e la morte quotidianamente, ma con la possibilità di avere o meno una speranza. Era ricoverata a Ginevra e certo non li aiutava. Lei non era sicuramente aiutata dal padre, che per reggere gli urti, e ce la faceva, si imbiancava la testa come i prati sotto le nevicate di inizio febbraio. E non erano certo aiutati né dalle loro situazioni né dal fatto di vivere in città diverse. Alcune volte si sentivano così vicini, ma altre lontanissimi.

Be’, la loro non era una gara di brutte circostanze, ma anche lui rispondeva con validi problemini. Un lavoro perso ed una causa sindacale vinta che lo aveva riportato al licenziamento di suo padre negli anni ottanta, un ginocchio disintegrato ed un passato che rendeva difficile la possibilità di trovare il sereno nel suo presente.

In comune Baggio, la lettura, la cultura, la politica, la forza di volontà, la testardaggine di non volere mai essere in difetto e di non voler sentirsi rimproverare, la facilità di passare dalla ragione al torto in meno di un millesimo di secondo. Soprattutto avevano in comune la vita dei loro mesi precedenti: due matrimoni, due storie lunghe ed importanti, due fallimenti, due separazioni e l’avvicinamento a due divorzi, con tutte le spese, lo stress, i dissidi con gli ex-coniugi e le consapevolezze di aver fatto del male a se stessi ed ai genitori.

Genitori diversi ed uguali tra loro e diversi da quelli dei loro ex-compagni, così invece similmente cambiati tanto da far finire le storie.

Lei, in un incidente stradale, aveva perso il figlio che aveva in grembo. Forse per questo, inconsciamente, non le pesava fare da mamma al nipote, sebbene questo togliesse spazi e tempi alla loro storia. Lui, quando lo seppe, ebbe un lampo e ricordò due famosi detti: “Chi soffre sa” e “Gli occhi sono lo specchio dell’anima”.

Lei era stata sposata pochissimo, dopo un unico lunghissimo fidanzamento. Lui, sposato poco, dopo una lunga storia nata dopo aver girato mille letti.

E a lei questo non piaceva.

Non piaceva perché si stavano innamorando, ma fino a poco tempo prima erano colleghi. Si erano trovati sulla rete per uno strano gioco di richiesta e offerta di cultura alternativa da proporre nelle scuole. Lui era laureato in Psicologia… ma più psicopatico che psicoanalista. Affetto dalla strana sindrome di Peter Pan, per la quale ormai faceva il formatore sul gioco cercando di convincere tutti che era una professione, celando invece il godimento di essere pagato per giocare a pallone con i dodicenni, a scacchi con adolescenti a rischio o per parlare de “Il Signore degli Anelli” alle educatrici dei campi solari di animazione estiva. Godeva non tanto per questa sua condizione, ma per quanto, solo tre mesi prima, la sognasse tra gli scaffali di un monotono, pericoloso e non gratificante lavoro di magazziniere di tessuti, schiavizzato da un titolare egoista e geloso della sua cultura e gioia di essere ateo, comunista e libero.

Si destabilizzavano a vicenda… a volte riempiendosi di insulti, altre di lodi, a volte dicendosi che era strano ritrovarsi innamorati a così poco tempo dalle separazioni, a volte a dirsi che non c’era futuro per loro, perché lui voleva proprio quello che lei a volte non voleva o poteva fare, e lei, nel momento in cui lui si incavolava per questo, non sopportava di sentirsi dire proprio le cose che lui le diceva.

La nonna di lei era morta da poco, secondo lui per il dispiacere della malattia della figlia e per la volontà di morire prima della figlia stessa. Lui, invece, le nonne non vedeva l’ora di vederle seppellite, come i suoi ex suoceri, o tutti quelli che preferivano Tahiti a Chiusi della Verna, Bossi a Bertinotti, la bistecca al tiramisù… no, non era così estremista, scherzi a parte, ma nel suo essere comunista e democraticamente libertario, se si vedeva pestare i piedi, diveniva un ribelle cubano di fine anni sessanta a cui mancava, e menomale, solo il mitragliatore.

E la sua barbetta gli dava un che di battagliero. E a lei piaceva, testardo quando le diceva “Eia” in finto sardo, o quando abbassava la voce nelle telefonate del post mezzanotte. E a lui piaceva lei col suo fare un po’ ferillonesco, un bel sorriso, un bel seno e pure un bel cervello.

Si piacevano. Si piacquero la prima volta che si baciarono e la prima volta che fecero l’amore, temendo che potesse essere solo sesso. Si piacevano perché lei in tempi non sospetti dette da leggere a sua madre racconti di lui e a suo padre fece vedere i suoi quadri; si piacevano perché i genitori di lui, che mai avevano fatto paragoni prima, non avevano necessità di un traduttore per capirla se parlava coi suoi.

Ma i perché non servono. Si piacevano perché si piacevano. Le definizioni le lasciarono al Devoto Oli: se il loro fosse amore, sesso, amicizia o un pinco pallino non era importante.

Poi la vita è strana e ti riserva strane sensazioni, strani incroci. E cosa è la vita se non un viale enorme, con mille traverse, vicolo, parallele, incroci, piazzettine. Ora erano lì, così. Ieri non lo avrebbero mai detto, domani chi lo sa.

 

Quando si erano conosciuti sembrava tutto… ma non certo quello che sarebbe stato… quello che era in quel momento.


IL FURGONCINO E LO SPAVENTAPASSERI

 

 

Fece l’ultimo nodo. La corda nel tendersi gli aveva finito di rovinare le mani, già sporche e callose. Le gocce di sudore bruciavano sulla pelle arsa dal sole di quel lungo pomeriggio primaverile. Aveva legato l’ultima cassa di pomodori sul furgoncino blu del padrone, che di lì a poco sarebbe tornato a prenderli. Aveva un fazzoletto al collo. Rosso. Un paio di jeans strappati. Le scarpe da tennis di tela. Bianche e con due tagli proprio all’altezza dell’alluce. Poi quella camicia a quadri gialli e verdi, proprio come i colori estivi di quella terra. Ma non così brillanti. Era vecchia, stanca come chi la indossava. Era leggera, estiva ma a maniche lunghe. Lui, però, ne arrotolava i polsini su su fino all’articolazione del gomito, che fungeva da fermo. Al polso sinistro aveva un bracciale d’osso e corda, di quelli tipici del suo paese. Quando era nei campi a falciare il grano, a seminare o a raccogliere pomodori, come quel venerdì, ogni tanto lo guardava, quel bracciale. Forse per accertarsi di non averlo perduto o forse per avere un istante da riservare a qualche ricordo, lontano di tempo e chilometri. Pensare che a pochi passi dal furgoncino blu c'era lo spaventapasseri, che il padrone spostava a seconda della stagione e del tempo atmosferico. Lo spostava come una pedina su una scacchiera, proprio come spostava i suoi uomini. Così come spostava lui, che come gli altri, era arrivato con due bagagli soltanto: uno piccolo, con le cose più utili ed i documenti, e l’altro enorme, colmo di speranza. Quella speranza che assieme alla dignità con la quale si opponeva agli insulti di chi passava a lato dei campi del padrone, lo rendeva diverso dallo spaventapasseri.


IL RITORNO

 

 

“Che faccia di cazzo!”, disse alla sua stessa immagine riflessa nel piccolo specchio rettangolare e sporco davanti a lui.

Lo scompartimento si era vuotato, la coppia di tedeschi era scesa due stazioni prima. Sulla pelle marrone di un sedile c’erano ancora le due bottiglie di birra e le briciole dei loro panini sintetici.

Si era svegliato per il rumore infernale dei freni di quell’intercity e fu quella la prima cosa che disse appena si vide riflesso. Aveva sotto gli occhi le stesse valige che aveva sopra la testa. Ormai era quasi a casa, di ritorno, dopo tre mesi trascorsi in Australia. Ne era sempre rimasto affascinato per la lontananza, i canguri ed il mito dell’acqua che nei lavandini faceva un vortice in senso contrario rispetto a quelli europei. Altri ritorni erano stati caratterizzati da rapide immagini del viaggio appena concluso che tornavano alla mente.

Ma stavolta no.

Mauro Revizi stava tornando nella sua Roma, città che lo aveva partorito ventiquattro anni prima. Stava tornando dalla terra che sempre aveva sognato. Si stava lasciando alle spalle moltissimi ricordi, che comunque non erano al centro della sua attenzione. Poteva tornare nella sua mente il bel sorriso biondo di Annette, una francese con la quale era stato insieme poco più di due mesi. Oppure, strana coincidenza, il giorno che sul sedile di un tram, dimenticato sicuramente da un altro italiano, aveva trovato ”Due di due”, uno dei più bei libri che avesse mai letto, un libro regalatogli da un vecchio amico e che aveva un particolare significato per lui. Oppure poteva rivedere davanti ai suoi occhi la faccia di Connery, il suo attore preferito, che aveva visto perché stava girando un nuovo episodio di 007 proprio in Australia.

Macché! Mauro, appena salito sul taxi che lo portava all’aeroporto di Sidney, fu invaso da una strana malinconia. Non quella tipica da viaggio di ritorno. Erano sensazioni strane. Dei flash della sua vita. Le costruzioni colorate che avevano alimentato la creatività sua e di Massimo, suo fratello maggiore. La voglia che aveva avuto, per un certo periodo, di vedere morti, nello stesso incidente stradale, la sua vecchia prof di italiano ed il capo ufficio che anni prima aveva licenziato ingiustamente suo padre.

Salito sull’aereo che sarebbe arrivato a Milano, si addormentò, ma fece dei sogni assurdi. Rivide dettagliatamente stanza per stanza l’appartamento nel quale era nato e dal quale erano stati sfrattati poco dopo il licenziamento di suo padre. Poi la sua prima seduta dallo psicanalista, dopo che una sarda complessata conosciuta all’università lo aveva praticamente demolito. Ma la cosa inspiegabile era che a Mauro tutto appariva come un incubo, anche se a tornare a galla erano anche dei bei ricordi, come il suo primo bacio durante la gita a Venezia o il suo primo spinello olandese fumato con Alessio sopra le scale dei sottopassaggi della stazione di Amsterdam.

Arrivato a Milano dovette aspettare un paio d’ore per salire sull’intercity dove adesso era seduto. Sapeva dell’attesa obbligata e si era accordato via lettera con Fabio e Angela, due amici che convivevano in un monolocale vicino al Duomo di Milano, conosciuti qualche estate prima in una strampalata vacanza all’isola d’Elba. Infatti arrivarono all’appuntamento prestabilito felicissimi di rivedersi: stavano insieme praticamente grazie a lui. Anche lui era contento di quell’incontro, ma nel loro dialogo ogni parola rimbalzava nella testa di Mauro in modo tale da stravolgere ogni minimo equilibrio mentale. “Bentornato in Italia, benvenuto a Milano, dai! facciamoci un Ramazzotti”.

Pem!! I suoi neuroni iniziavano a lavorare e… Ramazzotti… “più bella cosa non c’è”... Gli venivano alla mente quei suoi stupidi, inetti vicini di casa che quattro o cinque mesi prima lo avevano massacrato con stupide canzoni banalmente italiane e banalmente d’amore, ascoltate a tutto volume e quindi ascoltate da tutta la borgata romana nella quale Mauro viveva.

Quando salì sul treno cercò come al solito uno scompartimento con qualche bella ragazza. E come al solito lo trovò. C’erano una coppia di tedeschi ed una ragazza molto carina, con i capelli a caschetto rossi. Verso Pavia iniziarono a parlare. Lei tornava a Grosseto, dove viveva. Era stata a vedere una mostra sull’informatica: lavorava nel settore. I due tedeschi stavano dormendo.

Informatica!! Oh caspita! Sapeva che, in tre mesi di assenza, Massimo, con l’aiuto della folle mente di Andrea, il telecineticoinformaticointernettizzato del gruppo, avrebbe cambiato ogni tipo di configurazione possibile ed immaginabile al computer, quindi adesso i file con le sue poesie sarebbero stati ritrovati quanto meno diversi da come lui li aveva lasciati alla partenza.

Già, le poesie! Aveva scritto moltissimo in questi tre mesi. E arrivati a Grosseto, quando lei scese, scrisse una poesia su come si potesse conoscere tanta gente nei viaggi in treno.

I tedeschi sarebbero scesi a Civitavecchia per imbarcarsi per la... cazzarola! La Sardegna! Gli tornava a mente spesso la sarda. Era successo anche in Australia, una volta addirittura mentre faceva l’amore con Annette. Poi si era addormentato. E adesso era lì, davanti alla sua faccia di cazzo, proprio come lo chiamava lei. Non Annette, chiaramente. La sarda.

Era davvero vicino. Non vedeva l’ora. Il caldo abbraccio di sua madre, che in quei tre mesi chissà quante volte aveva acceso la televisione con il terrore di sentire la notizia di un romano ucciso, chissà perché, da un folle omosessuale australiano, che prima di ucciderlo lo aveva inevitabilmente violentato. La quasi scontata battuta a sfondo sessuale di suo padre. La zucca ormai quasi pelata del suo fratellone. E poi la stanza con il poster di Venditti e della Roma. Quando vide che la coppia era tedesca, con il suo non brillantissimo inglese, spiegò loro di come avesse eroicamente ottenuto la maglia di Rudy Voeller al termine di una partita di coppa di qualche anno prima. Non vedeva l’ora di metter sotto i denti le lasagne fatte in casa che la madre aveva sicuramente preparato. Da giovane aveva fatto la cuoca in un locale di Trastevere e anche dopo che si era dovuta licenziare perché in stato interessante di Massimo, le era rimasta la passione. Suo marito trovava sempre qualcosa di troppo cotto o di poco saporito, ma erano tutti tentativi di farla arrabbiare. Avevano sempre litigato molto poco da che Mauro si ricordasse, ma quelle poche volte era sempre scoppiata una mezza tragedia perché erano troppo testardi ed orgogliosi per metterci una pietra sopra subito dopo le prime avvisaglie di tensione. Mauro si ribellava a questa situazione, ma sapeva che sarebbero rimasti così fino a che fossero rimasti vivi.

La morte... Mamma mia cosa gli era venuto alla mente. Con tutte le difficoltà che i Revizi avevano vissuto, erano ormai ipersensibili, e tutti e quattro, in modo diverso, rendevano evidenti le loro debolezze. Mauro in particolare pensava spesso alla morte. Sin da piccolo, quando nel buio della notte si svegliava nel silenzio, tratteneva il respiro e poi rimaneva immobile, per cercare di capire come fosse la morte. Ma l’unica cosa che nella sua esperienza le si avvicinava era il sonno forzato che aveva vissuto durante le anestesie per le due operazioni al ginocchio. Un ginocchio che Mauro si era autodemolito per la grande passione per il calcio. L’anestesia era diversa dal sonno, lo aveva sempre pensato. La sera vai a dormire e ti addormenti perché lo vuoi; sul letto della sala operatoria, invece, sovrastato da un cerchio di luci e da uomini in camice verde, che lui chiamava per questo “i leghisti”, sono loro che ti conducono verso un buio spazio-temporale indefinibile.

Si stava accorgendo che da quella sua colorita espressione detta davanti alla sua immagine era passato un bel po’ di tempo. Il treno stava rallentando, era entrato a Roma Termini. Ormai era questione di attimi. Sarebbero stati tutti lì. Con la mitica Panda, quella dell’incidente al Verano e del primo esame all’università, uno dei pochi passati alla prima.

 

Era il binario nove... i fischi dei freni... nove... che fischi strani... nove, sono le ore nove...

 

Driiin. Era la sua radiosveglia che suonava e lo svegliava. Suo padre doveva accompagnarlo a Fiumicino, per andare in Australia.


NEL PUB

 

 

Non era certo dei più eleganti, quel pub. Non era neppure dei più scaciati. Certo che ne aveva visti molti: in Francia, in Olanda, a Firenze, a Bologna. Ogni viaggio, ogni vacanza, ogni volta che era ospitato per lavoro da qualche suo collega.

E si ricordava come nel tempo fossero cambiati, i pub. Già, perché aveva una memoria fotografica impressionante. Si ricordava cosa aveva bevuto a Lione; se la cameriera era mora o bionda, carina oppure no. Si ricordava che a Firenze aveva bevuto una Ceres, con la sua allora fidanzata Martina. Si ricordava che a Venezia, con Paolo, suo grande amico, avevano alzato il gomito per una notte intera, a festeggiare un progetto architettonico accettato dal comune, a base di vodka e cocktails pesantissimamente alcolici.

Ma i pub della sua città, proprio non li sopportava. Roma era troppo caotica per lui. Con quei giapponesi che fotografano anche le verdure nei mercati, con studenti sempre alla ricerca di un diciotto o di un culo da pedinare. Con quei tram stracolmi... e allora prendo la macchina ma... quelle strade stracolme, allora la metro... ma oggi è sciopero. Madre di Dio, ma era invivibile per lui questa situazione. Sapeva che era così bene o male in ogni città, ma lui, a Roma, una vita così non la sopportava.

I pub erano una sua grande passione. Era rimasto entusiasta di quelli che aveva conosciuto in Messico, forse perché nella sua mente passavano dettagliatamente tutte le inquadrature western del suo compianto regista preferito, Sergio Leone.

Il lavoro lo portava a spasso per tutto il mondo. Era divenuto un architetto affermatissimo, sempre in giro per congressi, foto, incontri per progetti di ristrutturazione. Ma fortunatamente la sua faccia non era nota come quella di un grande attore, o di un calciatore, o di un cantante. Per questo, spesso, questa specie di seconda vita, questo suo essere anche Mr. Hyde, lo portava in un pub per scolarsi svariati bicchieri di alcool, che comunque reggeva splendidamente, o per incontrare uno sguardo al quale strappare una notte d’amore.

Era un single per scelta... degli altri, anzi delle altre. Troppe storie strane nel corso della sua adolescenza e della sua vita in generale. Si era fatto un’idea particolare sulle donne. Noi ci conoscevamo da un pezzo e in effetti non era sempre stato così. Era cambiato. Io la pensavo in modo diverso, ma lo capivo. Non è facile sopportarsi per una vita, figuriamoci se è facile trovare una persona da sopportare tutta una vita!!

Quella sera, poi, aprì la porta del pub per uscirne particolarmente schifato. Era solo, come quasi sempre. Una bella cameriera, stranamente elegante, lo aveva fatto accomodare ad un tavolo in mezzo al locale. C’era un odore strano. Ci volle ben poco per riconoscerlo. Si tolse il soprabito e si sedette. Ruotò il capo in modo tale da categorizzare tassonomicamente i presenti. In senso orario, a partire dall’entrata, aveva individuato sette ragazzotti, sicuramente facenti parte di una comitiva scolastica in gita nella capitale; due coppie sui cinquanta con un caffè ciascuno; due ragazze molto carine e giovani che stavano scegliendo qualcosa sul menù; due ragazzi ed infine una coppia.

Aveva ordinato un caffè ristretto, perché avrebbe dovuto disegnare tutta la notte, ed un amaro. Non voleva bere troppo e non voleva neppure far tardi. Era soltanto uscito a far due passi in centro per prendersi un po’ d’aria. La bella cameriera fu celere nel portar lui ciò che aveva ordinato. Non azzardò neppure uno di quei suoi sguardi di ricerca, non gli andava proprio rischiare di dover lavorare i giorni a venire in modo forsennato per una notte con una femmina. Bevve veloce il caffè e iniziò a sorseggiare l’amaro, con una mano appoggiata al mento a sostenere il capo.

Mentre beveva, iniziò a giocare con la sua barba incolta. Era uno di quei momenti in cui non pensava proprio a niente. Arrivavano, però, frasi da un tavolo, commenti da un altro. Provò a focalizzarsi allora sui singoli gruppi, facilitato anche dal fatto che il pub non era affollatissimo. Purtroppo riuscì nel suo intento. I sette monellacci, tra una canna e un rutto, tra una birra e una miriade di espressioni volgarissime, erano fuggiti dall’albergo dove a quell’ora sicuramente i loro professori si stavano accorgendo della loro scomparsa. Avevano un giornale locale e stavano spulciando la pagina degli annunci confrontandola con una cartina, alla ricerca di una “A.A.A. Hostess offresi per traduzioni, parlo tre LINGUE” il più vicino possibile al pub. Ebbe un conato, non certo frutto dell’azione digestiva del suo amaro.

Le due coppie sui cinquanta stavano parlando della situazione politica, affermando che “Certo le sinistre non stanno cambiando l’Italia. Così imparano a non dare tempo e fiducia a quel sant’uomo che addirittura per entrare in politica ha accantonato anche la sua primaria occupazione di imprenditore”.

Appena entrato avrebbe giurato che i due ragazzi, con quei loro foulard al collo e quell’aria da intellettuali, avrebbero tentato l’approccio con le due giovani. Si era illuso. Vide i due ragazzi prima chiamare la cameriera per chiedere il conto e poi, una volta pagato, abbandonare il locale mano nella mano. Non ebbe il tempo di meravigliarsi. Ma soprattutto non ebbe il tempo per pensare cosa stessero pensando di loro le due giovani, che secondo lui aspettavano proprio un loro invito. Infatti sotto al tavolino stava accadendo una cosa assurda. Una di loro aveva una gonna molto corta. Allargò leggermente le gambe. L’altra, che con una mano teneva stretta la sua coca cola, sorseggiandola lentamente dalla cannuccia in modo a dir poco provocatorio, appoggiò l’altra mano sulle ginocchia della prima e iniziò a salire. Prima arrivò ad accarezzarle le cosce, poi con un rapido movimento della mano allargò ancora di più le gambe iniziando a toccarla.

Le sue ultime speranze di trovare un attimo di normalità all’interno del pub lo portarono ad ascoltare attentamente quello che la coppia si stava dicendo. Dei presenti erano quelli che parlavano più sottovoce, soprattutto lei. E purtroppo capì subito il perché. Stavano insieme da molto. Lei era tornata da un viaggio di due settimane in montagna. Qui era successo il fatto. Aveva conosciuto un altro e bla bla bla. Praticamente lei voleva un appuntamento per restituirgli le sue cose. Con freddezza lei pronunciò un orario, un luogo ed un giorno. Si alzò per andare verso la cassa, pagò anche per lui, tornò al tavolino per salutarlo ed uscì. A questo punto un secondo conato che sapeva... di mondo. Il ragazzo aveva le lacrime agli occhi, ma non accennavano a cadere. Lui chiese il conto e la bella cameriera portò via la tazzina e il bicchiere. Ordinò e pagò anche un gelato in coppa da far avere al ragazzo che era rimasto solo al tavolo. Prese il suo soprabito proprio mentre la cameriera portava la coppa al ragazzo, che chiese informazioni sul fatto e lo guardò. Lui sorrise in modo molto comprensivo e solidale e vide il ragazzo che, asciugatosi le lacrime, iniziò a mangiare di gusto il gelato.

Mentre apriva la porta schifato, vide uno dei sette monelli chiedere dove fosse il telefono. Avevano individuato “la linguista”. Le due ragazze adesso si stavano baciando e i quattro critici politici stavano parlando del futuro dei loro nipoti.

Si chiuse la porta alle spalle e, con il freddo che penetrava nei pori, chiamò un taxi per andare a casa.

Per fortuna lo aspettava una lunga notte di lavoro.


I GEMELLI

 

 

Erano terribilmente nascosti dietro a quei loro sorrisi lentigginosi, dietro a quelle camicine e cravattine che la loro magrissima madre imponeva loro.

Sembravano una famiglia normale. Lei maestra, lui avvocato, due gemellini biondi e carini che, per evitare chiacchiere, non erano stati iscritti alla scuola dove la madre insegnava.

Erano bravi; alle elementari chi non lo è. Educati, gentili, erano cresciuti con l’insegnamento dei “Buongiorno”, “Scusi” e “Per favore”. Eppure celavano quella loro strana e macabra caratteristica.

Jason e Jonathan, giocando nel giardino, il pomeriggio, imprigionavano gli insetti dentro piccole bustine trasparenti. Un’innumerevole quantità di insetti catturati senza farsi notare dai genitori. Quando la madre, con la sua voce stridula, li chiamava per rientrare, si nascondevano le piccole buste nelle tasche o sotto i vestiti, salivano in camera velocissimi e nascondevano i loro prigionieri sotto i cuscini. Andavano in bagno a lavarsi le mani per andare a tavola con i genitori; dopo aver mangiato e dopo aver guardato qualche tipico programma televisivo americano, andavano a letto.

O meglio, fingevano di farlo. Infatti, dopo che la madre aveva spento la luce e chiuso la porta, trascorsa poco più di un’ora, iniziava il gioco...

Si alzavano, accendevano una candela e prendevano le piccole buste con le loro vittime. Qui emergeva tutta la loro cattiveria: strappavano le zampe alle formiche con le pinzette che la madre usava per depilarsi; immobilizzavano i ragni di ogni dimensione a piccole basi di plastica, trafiggendoli con aghi da cucito e facendo colare sopra loro la cera della candela; sezionavano le mosche con il tagliacarte del padre.

…E intanto facevano viaggiare la loro mente: la formica era la signora della villettina accanto; la cera colava sugli occhi di un loro compagno di classe; quel tagliacarte si conficcava nella pelle del lattaio, chiara come il suo latte.

Un giorno, anni dopo, la casa dei Barnes andò a fuoco. I pompieri trovarono quadri, libri e divani distrutti ma anche evidenti segni di colluttazione.

Nel bagno, la vasca era colma di acqua, nella quale galleggiavano un phon con la spina ancora nella presa ed il corpo dell’insegnante in pensione.

Nello studio l’avvocato aveva dei documenti arrotolati in bocca e le mani immobilizzate alla scrivania, trafitte da lunghi tagliacarte, ed il nodo della cravatta tanto stretto da averlo strangolato.

Al piano di sopra, i pompieri trovarono i corpi carbonizzati di due ragazzi e di un gatto.

E una tanica di benzina.


PEDALANDO

 

 

Di giorno sapeva ottimizzare il tempo come nessuno di noi sapeva fare. Non seguiva le lezioni, ma preparava gli esami a casa e sistematicamente raggiungeva risultati invidiabili per rendimento e costanza.

Si svegliava prestissimo la mattina e leggeva i quotidiani del giorno prima facendo colazione. Si faceva velocemente una doccia bollente, dopo aver pulito e sistemato la stanza. Poi si metteva a studiare, sottolineava, scriveva, ripeteva ad alta voce, spesso si registrava per riascoltarsi e correggersi.

All’una preparava qualcosa per il pranzo. Mangiava, lavava i piatti e, ascoltando un po’ di musica classica, accendeva il suo personal computer per scrivere qualche breve racconto con il sigaro tra la labbra.

Per due ore ogni pomeriggio, ad orari non sempre uguali, faceva da balia al pargoletto di una vicina, una giovane mamma molto affascinante.

Chiamava qualche amico, studiava ancora o leggeva qualche buon libro. A cena, spesso, andava ad un ristorante cinese sotto casa; altre volte comprava un po’ di pizza. Cenava da solo o con qualche amico o amica recuperati con le telefonate del tardo pomeriggio.

Tornava a casa non prima delle 22 e 30, faceva un’ora scarsa di pesi e poi...

Finalmente prendeva la sua bicicletta per visitare la città di notte.

I suoi si fidavano di lui e d’altra parte lui era riuscito ad essere meno dipendente; oltretutto era stimato da tutti per l’andamento universitario.

Dormiva pochissimo, al massimo 4 ore a notte. Sperava che non piovesse, ogni sera, per poter visitare altri luoghi, per poter conoscere altri strani personaggi notturni. Pedalava per tre o quattro ore e poi tornava a casa a dormire.

In alcuni periodi aveva fatto sport, in altri si era legato sentimentalmente a qualche ragazza, magari non bellissima ma in gamba e misteriosamente affascinante. Ma riusciva a fare tutto ciò che per lui era ormai la sua vita.

Una sera si fermava a parlare con un viado, altre con una giovane prostituta. Aveva conosciuto dei lavavetri bosniaci che dormivano sotto i portici del centro, con i cartoni di un paio di Telefunken per giaciglio. Aveva intoppato alcuni dei personaggi che i cittadini chiamavano “i matti locali”. Era riuscito a stringere amicizia con un tossicodipendente che per la quarta volta tentava di uscirne fuori. E poi ragazzini scappati dai paesi vicini, coppie in fuga.

Aveva poi scoperto l’emozione di pedalare veloce su quelle strade deserte, che poche ore dopo si sarebbero affollate di vetture, smog, traffico e rumori assordanti. Giocava con le ombre doppie passando tra i filari dei lampioni vicino al parco. Una volta fece scappare un ladruncolo che tentava di rubare l’autoradio di una vecchia Opel. C’erano i cani randagi ed i gatti che precedevano di pochi minuti gli uomini della nettezza urbana, in cerca di qualcosa da mangiare. La notte trasformava gli uomini in generale.

Anche lui, pedalando, si accorgeva di esser sempre pedinato dai suoi stessi pensieri, dalla voce della sua coscienza. Si accorgeva di essere diverso, di non essere soltanto il buon amico, l’ottimo figlio, il ragazzo che faceva la balia al ricciolutissimo figlio della vicina.

Si accorgeva di quanto costava caro agli uomini reprimere ogni tipo di istinto per essere accettati dal mondo circostante.


IL TACCO DELLA DESTRA SI E’ ROTTO

 

 

Aveva lo sguardo furbo, tra il sorriso, tagliente come la sua intelligenza, e la zazzera nera che gli cadeva sugli occhi.

Aveva imparato il mestiere dal padre, col quale adesso lavorava in quella bottega, che lo aveva a sua volta imparato da suo padre. Lavoravano ancora come ai vecchi tempi: quel suo camice marrone sembrava proiettarlo decenni indietro. Era la bottega del calzolaio per eccellenza, la più ambita dagli abitanti non solo del rione, ma anche di quelli vicini.

Quella mattina Pasquale era da solo al negozio, il padre era rimasto a letto, distrutto dalla tosse che per l’intera nottata non gli aveva fatto chiudere occhio: fumava come una ciminiera.

Era sul retro a disegnare alcune sagome di suole sul cuoio, quando... “Dlin dlon”. Sentì il campanello sopra la porta. Andò al banco.

Non sembrava avere più di ventiquattro, venticinque anni. Aveva un paio di scarpe con i tacchi, color castagna. Le calze a rete di un marrone meno scuro. La gonna era corta ed a quadri, anche quelli di diversi toni di marrone. Aveva poi un maglione a collo alto color nocciola ed un giubbetto di camoscio che si intonava con la borsetta. Si intravedevano delle curve davvero provocanti, soprattutto sui fianchi e sul seno. Aveva una collana di legno ed osso sopra il colletto del maglione, di lana spessa e morbida, che un po’ nascondeva. Ma Pasquale, che impazziva per un bel collo chiaro e lungo, ne poteva apprezzare la forma grazie alla sua immaginazione. La carnagione era chiara, poco trucco sugli occhi verdi e sulle labbra carnose. I capelli neri erano intrisi di un profumo delicato che, espandendosi, si era ormai mischiato agli odori agri tipici dei calzolai.

“Volevo sapere se fosse possibile riparare queste scarpe”. Estrasse da una busta di carta con i lacci di corda una scatola di scarpe, nere, eleganti, da sera.

Pasquale sentì la musica in quelle parole. Lei poteva anche avergli detto “Fottutissimo calzolaio, le voglio pronte per domani”: sarebbe stato lo stesso. Lui rimase lì, con la bocca aperta, davanti alla cliente mai vista prima, quasi folgorato.

“Sono qui per qualche giorno, il tacco della destra si è rotto e mi hanno detto che voi lavorate benissimo”. “Anche tu sono convinto che non scherzi” pensò il giovane ancora a bocca aperta. Le prese, le guardò e le disse che sarebbero state pronte per la sera successiva. Lei ringraziò ed uscì.

Lui si mise subito a lavoro, affogato nel profumo che lei aveva lasciato. Lavorava, tagliava, incollava, ma contemporaneamente iniziò a viaggiare con la sua immaginazione.

Seduti su un morbido divano rosso, la prima cosa che le avrebbe tolto sarebbero state, forse per deformazione professionale, le scarpe color castagna e le calze a rete. Avrebbe iniziato a baciarle e massaggiarle i piedi, freddi, piccoli, chiari. Poi sarebbe volata la gonna, il maglione, se necessario anche la collana di legno. Il reggiseno, le mutandine. Tutto, anche l’impossibile.

Le scarpe erano pronte già in mattinata. Il pomeriggio non voleva passare. Attese anche per mezz’ora dopo l’orario di chiusura. Niente. Lei non ritornò mai più. Le scarpe rimasero sopra un banco del retrobottega per mesi e mesi. Non tornò mai più.

Ma due cose erano certe: lui le scarpe le aveva riparate, e bene. E la sua immaginazione... be’ quella avrebbe continuato a viaggiare libera, ogni volta che avrebbe voluto, ogni volta che avrebbe visto una cliente come quella. Anche se sapeva che clienti così non erano tanto frequenti come quelle scarpe da sera.


TESTIMONE NEL PARCHEGGIO

 

 

Giovanni lavorava in una radio.

La mattina era impegnato alla redazione di un giornale musicale, poi pranzava ad un fast food della zona ed in auto raggiungeva, nel primo pomeriggio, la sede della radio. Si alternava i compiti con il collega; facevano dei turni che lo impegnavano o nelle dirette di talk show radiofonici, o nella scelta di pezzi musicali, italiani e non.

Quel martedì era andato al McDonald’s verso le 14, insieme a Marina. Poi, riaccompagnandola a casa, le aveva parlato di un’intervista fatta la mattina per il giornale. Era arrivato leggermente in ritardo alla radio, dove infatti Paolo, il collega, aveva prolungato gli spazi pubblicitari. Fu un pomeriggio tranquillo, con qualche telefonata da ricevere durante il programma culinario e qualche disco di Marley e De André ad interrompere il noioso ritmo delle ultime uscite nazionali.

Giovanni rimase, come ogni sera, fino a tardi. A mezzanotte meno un quarto lasciò il posto a Carlos DJ, un mezzo pazzo che curava i programmi notturni. Si mise il cappotto e prese l’ascensore che lo portava al parcheggio sotterraneo. Stava cercando le chiavi della sua Renault 5 nella tasca dei pantaloni, quando sentì delle urla. Si inginocchiò per nascondersi e guardò la scena.

Un uomo molto robusto stava prendendo a calci e pugni una ragazza. Giovanni non sapeva che cosa fare. L’uomo, adesso, l’aveva colpita con uno schiaffo e lei era caduta a terra. La prese per un braccio rialzandola e scaraventandola sul cofano di una Volvo bianca. Il suono secco degli colpi riecheggiava nel parcheggio semideserto. Ora l’uomo stava violentando la ragazza che, piangente, tentava di urlare senza successo, visto che lui le tappava la bocca con una mano.

Giovanni si stava sentendo male, il cuore era velocissimo, non riusciva a parlare ed a muoversi.

Le urla cessarono. Un ultimo colpo sul viso. Lei cadde a terra, disegnando con il sangue, sul cofano bianco, il percorso del suo corpo che scivolava sul terreno. Lui fuggì. Giovanni, sudato, con le lacrime agli occhi e pallidissimo, le si avvicinò: era morta.

Salì alla radio per chiamare la polizia. Carlos DJ si accorse subito che era molto scosso. Alle 7 e 30 del mattino successivo, dopo una lunga notte trascorsa davanti ai poliziotti come testimone, ancora sconvolto, non poté fare a meno di telefonare a Marina, avvertirla dell’accaduto ed andare da lei per parlare. Si sentiva un po’ colpevole. Non aveva avuto quel coraggio e quella prontezza che spesso la vita ti impone di avere. Per fortuna c’era Marina.

Non riuscì mai a capire come potesse essere successo, ma otto giorni dopo Carlos DJ fu arrestato per omicidio e stupro.


LA GIORNATA DA RIVALUTARE

 

 

            L’angelo custode apparve per la prima volta a Venturini nella notte delle Ceneri, poco più di un’ora dopo che egli ebbe preso finalmente sonno, avendo ormai raggiunta la certezza che una delle peggiori giornate della sua vita poteva considerarsi definitivamente consumata...

 

            Era il primo di una serie di incontri che sarebbero stati sempre più frequenti, proporzionalmente alla depressione del giovane Venturini, toscano, laureando in filosofia all’Università di Roma.

            D’altronde, come poi sarebbe successo in seguito, quel pomeriggio, all’entrata dell’aula, lei apparve così: lungo collo bianco, caldissimo sorriso, occhiali tondi.

            Aria carnevalesca, Venturini pensava ad uno scherzo. Invece era magnificamente vero: la giornata era da rivalutare, in fondo non era stata la peggiore della sua vita.

 

            Ringraziò l’Angelo.


IL LORO VIAGGIO

 

 

            Aspetta. Non se ne va, non fugge.

Lo sparo ha strappato il velo azzurro pallido del cielo estivo. Aspetta che la ferita si rimargini, che il verso della tortora ricominci a rompere il silenzio, ansioso come un antifurto. Ancora un momento di quiete, prima di riprendere il viaggio...

 

            Guido ha ancora l’arma in pugno.

Quell’attesa? Inutile. La ferita non si rimarginerà. Mai. Nella strada di campagna, cotta dal sole, ci sono solo lui, l’auto e quel cadavere. Ed in lui, trenta anni di matrimonio, sacrifici, dolori, strade in salita. E dopo quello sparo... il vuoto.

            Elena è seduta, capo curvo: un rivolo di sangue esce dalla sua bocca, ancora truccata. Un secondo colpo esce dalla pistola di lui.

 

            Quiete: colonna sonora del loro viaggio.


L’EDITORE... PROFESSORE

 

 

            Aveva begli occhi, belle mani, una voce che ispirava fiducia.

Lo guardavo mentre estraeva, uno per uno, i fogli dattiloscritti dalla busta gialla e quasi mi dimenticavo che, su di un piccolo particolare, quello sconosciuto mi stava mentendo.

 

            Quella casa editrice mi aveva convocata. Ero molto tesa. Lavoravo ormai da un anno al mio romanzo e, fino a quel momento, ogni contatto con l’editoria era risultato più che negativo, umiliante! Erano “No” secchi, privi di giudizi critici, spesso privi di una lettura completa del mio manoscritto.

            Stavolta, invece, tutto stava andando liscio. Ma quel particolare...

Lui, mentendo, aveva risposto di non avermi mai vista; ma io lo avevo riconosciuto: era il mio vecchio professore di lettere.


666”

 

 

            Aveva deciso di rifiutare.

Aveva passato una notte d’inferno e si era svegliato con una morsa di panico che gli aveva tagliato in due il petto. Allora si era seduto accanto al telefono, ancora in pigiama. Il sole sulla parete della casa di fronte aveva il colore del primo mattino, rosso e fresco. Prese in mano la rubrica su cui aveva segnato il numero e lo ricompose a mente prima di digitarlo. A quel punto, però, il telefono squillò.

            Lui sapeva cosa alla fine avrebbe deciso: lo bruciò sul tempo. Il numero, scritto con le unghie e con il sangue, rimase nella rubrica.

            La proposta della sera prima era allettante. Quel piccolo demone aveva lasciato il numero del Superiore.

            Quello era l’ultimo primo mattino. Non era impaurito, era... impaziente!

Quella voce profonda, demoniaca, elencò i pochi dettagli del rito. Era la fine di ogni compromesso. Cibo, vino, donne, fiamme! Che mondo!

            Decise: vendette l’anima al Diavolo.


PRIMO NOTEVOLE

 

 

Aveva appena terminato di riempire il cestello della lavatrice con i panni che avrebbe dovuto lavare già il giorno prima. Selezionò il programma e, qualche secondo dopo, la lavatrice iniziò il suo monotono rumore, quasi assordante.

Il cestello iniziò a girare. Lui era seduto lì davanti, su una delle sedie di quella loro piccola cucina. Guardava il cestello girare. E girava, girava, e lui lo guardava con la stessa attenzione con la quale si gustava uno dei suoi film preferiti. Lo guardava quasi come se ne fosse stato ipnotizzato.

Iniziò a pensare, a viaggiare con la mente, a far rimbalzare da una parte all’altra tutti i neuroni che aveva in testa: si azionò, proprio come aveva azionato la lavatrice.

Perché settembre non era il settimo mese ma il nono? Ed ottobre il decimo e non l’ottavo? Era più logico chiamare settembre la domenica, visto che era il settimo giorno. E poi, se il lunedì era legato alla luna, il giovedì a giove e così via, che cazzo c’entrava la domenica?! Ma soprattutto: gennaio, febbraio e tutti gli altri fino ad agosto, cosa rappresentavano?

La sua agonia erano i nomi, i nomi in generale. La sua agonia e la sua sfortuna. L’unica volta che aveva trovato cinquantamila lire per terra, sulla soglia del tabaccaio dove comprava i suoi sigari, prendendo il portafogli per metterle al sicuro, realizzò che le aveva appena perdute: erano cadute mente pagava i suoi “Che”.

In realtà il suo problema era... lui, il suo nome. Lo fregava, era una croce, una rovina. Primo Notevole. Secondo di tre fratelli.

Non si sarebbe mai scordato le parole della sua prima ragazza, da lei pronunciate dopo la sua prima volta (di lui). “Oh, è stato fantastico Primo, non sei stato il primo ma sei stato davvero strepitoso. Notevole, veramente notevole”.

Come non si sarebbe mai scordato delle parole del presidente di commissione alla maturità, il giorno dei quadri: “Primo Notevole, trentasei”. Che poi era un incubo già vissuto in quei cinque lunghi anni. Il professore di Inglese (e l’inglese non era certo la sua materia) consegnava i compiti ordinandoli dal peggiore al migliore. E Primo era sempre il primo.

Il primo dell’anno era un’altra tragedia: tutti a casa di zia Luna, con Natale, Pasquale e tutti i parenti. Trittico di primi. Come non si sentiva mai unico!

Il cestello era lì che girava ed il cervello era lì che fumava, quando Primo fu distratto da sua madre. “Primo, levi le patate dal fuoco che sto cuocendo il ragù per il primo?”. A parte che odiava Primo Levi e che il ragù non era solo per lui, ogni volta che sentiva dire una frase del genere, cadeva in depressione.

Stava per riconcentrarsi sul cestello, quando sua madre lo distrasse ancora. “Non ti sembrano sciocche le patate?”. Si alzò e le assaggiò: “Secondo me (che sarei Primo) - pensò, cercando di non avere crisi di identità - sono buone”.

Tornò a sedere davanti al cestello, che velocemente lasciò scorgere la tuta blu. La mitica tuta blu. Gli ricordava il liceo. Cristo, era sempre interrogato per primo. A lui chiesero la prima guerra punica, la prima guerra mondiale e la prima legge di Mendel. A Diritto fu interrogato sul primo articolo della costituzione ed a Religione sul primo comandamento.

E poi il liceo era... il primo bacio. Non a quella della prima volta, ma proprio alla sua prima ragazza. Lui era in seconda e lei in prima. Si chiamava Terzi di cognome. Un disastro di storia. Al primo appuntamento, Primo la portò al cinema, al primo spettacolo della prima de “Il primo Cavaliere”. C’era un gran casino ed in fila, per fare i biglietti, qualcuno le toccò il sedere. La Terzi si incazzò, perché credeva che Primo, già al primo appuntamento, si prendesse queste libertà. Quello fu il primo e l’ultimo appuntamento di Primo con la Terzi.

La lavatrice aveva terminato l’ultima centrifuga. La madre, ormai, aveva terminato di preparare il pranzo e suo padre era appena tornato da lavoro. “Ciao Libero”, disse lei. “Ciao Serena”, rispose Libero.

Il padre di Primo lavorava da 31 anni in fabbrica e, durante le discussioni con i colleghi del sindacato, diceva che tutto si sentiva fuorché libero. La madre era serena solo di nome. Aveva un tic all’occhio sinistro e si mordeva labbra e unghie come un piccolo, dolce roditore.

Libero andò in bagno a lavarsi le mani e lei chiamò i due fratelli di Primo. “Vera, Domenico. A tavolaaaa”. Dopo pochi attimi la famiglia Notevole era al gran completo. Quel giorno era sabato e Domenico si era svegliato con la luna di traverso. Libero, invece, era sereno, perché la domenica poteva dormire fino a tardi. Primo iniziò a mangiare. Dopo neppure due bocconi disse: “Questo primo è salatissimo. Vera passami l’acqua”. Serena, a queste parole, si incazzò come una bestia e per tutto il pranzo il suo occhio si aprì e si chiuse con la stessa velocità con la quale il cestello aveva centrifugato la tuta blu di Primo.


UN FIUME DI PETROLIO

 

 

Non è facile guadare un fiume di petrolio nel buio di una notte senza luna, vero? E non è facile risolvere enigmi in ogni attimo. Eppure questa è la vita.

Lungi da me l’idea di lamentarmi. La vita è fantastica, anche con tutti i suoi casini, anche con tutte le famose strade buie ed in salita che arricchiscono i luoghi comuni della situazione.

Il giorno più bello della mia vita è sicuramente il giorno in cui ho fatto cucù dal corpo di mia madre.

Non nego però che sia dura, durissima. E non nego che, come nelle grandi battaglie, quelle che devono decidere i confini, sia opportuno avere degli ottimi alleati. Altrimenti, addio guado nel buio!

Io sono fortunato, sono uno dei tanti. Non so che cosa voglia dire crescere sotto un bombardamento. Mi sveglio ogni mattina nelle mie calde e pulite lenzuola; ogni giorno leggo libri, ascolto musica e vado al cinema.

Dove sono allora le famose strade in salita?

***

Quel giorno ero distrutto. Erano mesi e mesi che spendevo soldi, tempo ed energie. Racconti, poesie, articoli vari. Ormai era da un pezzo che scrivevo e già da un po’ di tempo avevo tentato di spedire materiale a qualche casa editrice. Plichi su plichi, file alle poste, ricerche su indirizzi di trasmissioni televisive o personaggi che osannavano la necessità che i giovani hanno di esprimersi e comunicare.

Poi l’esame era andato male ed in più da pochi giorni lei mi aveva piantato in asso. Le uniche risposte che ricevevo dalle case editrici erano come quella che stavo leggendo davanti alla mia cassetta della posta, con la solita faccia delusa: “Siamo felici di aver visionato il suo materiale che, per quanto buono ed interessante, appartiene ad un filone che non rientra nei nostri piani editoriali. Cordiali bla bla bla...”.

Salii in casa e mio fratello capì dal mio sguardo l’esito non brillante del mio esame: non fiatò. Mia madre stava combattendo con la calcolatrice ed i conti correnti postali delle varie bollette mensili. Mio padre era simpaticamente assorto nel suo pallore, sprofondato nel divano, con i piedi in alto perché in preda al suo ennesimo attacco tachicardico. “Gran giornata”, pensai.

***

Ecco dove sono le lunghe strade buie in salita. Ma come uscirne? Occorre luce per il buio e fatica per la salita e questa coppia di carburanti non la trovi al distributore di benzina.

E quella era una giornata medio-tranquilla!!!

Basta pensare, ad esempio, al periodo del licenziamento di mio padre, o al periodo trascorso in uno squallido albergo di esima categoria, nel quale avevamo alloggiato dopo lo sfratto dalla casa nella quale ero nato. Oppure, ancora, ai periodi immediatamente successivi alle mie svariate operazioni al ginocchio.

La luce e la fatica le devi trovare in te, dove con “in te” io intendo “nel tuo Io”, l’Io composto anche da gli altri.

Lo scrivevo sempre nel mio diario...

***

Mi chiusi nella mia stanza, accesi lo stereo e mi tuffai nel letto come in un’onda freddissima. Ogni pochi minuti andavo a controllare la situazione di mio padre. Tornai sul letto, non prima di aver aperto il cassetto dove tenevo un vecchio diario: mi lessi, perché in effetti sono il mio autore preferito.

Nei miei racconti e nelle mie poesie c’era tutta la mia vita. Tutto il mio Io e tutti i miei Altri. C’erano Hesse, Jung, Eco. C’erano Roma, i tramonti, i baci di mio padre a mia madre, gli obiettivi prefissi e raggiunti con mio fratello, il calcio, i miei amori, Venditti, i giochi di ruolo, i miei film preferiti.

Gli occhi caddero sulla prima poesia che avessi mai scritto: era per il mio primo amore. Sfogliai qualche pagina. La descrizione minuziosa del mio infortunio, di vecchi amici, del mio primo bacio. Una poesia sui miei ed il ricordo della faccia commossa, di mia madre soprattutto, quando la lessero. Qualche altra delusione, qualche altra gioia. Il mio secondo grande amore (quello finito appena qualche giorno prima...).

Tornai in sala, mio padre stava meglio. Mio fratello aiutava mia madre a preparare il pranzo. Nessuno mi aveva chiesto informazioni sull’esame, ma l’ultima cosa che pensavo era che a nessuno importasse niente.

***

Eccoli i due carburanti.

Problemi piccoli o grandi? E chi non ne ha! Le case editrici? Risponderanno, prima o poi risponderanno. Volere, potere. Non mi alletta l’idea di fare la fine di un Leopardi qualsiasi e di essere apprezzato solo quando due o tre metri di terra mi ricopriranno!

Che dire delle lei? Alcune volte si va benissimo da soli. Dovrà, stringendomi la mano, respirare con me l’odore del tramonto che spierà il nostro primo bacio. E dovrà, leggendo le mie poesie, magari quelle che parlano di lei, commuoversi come successe quella volta ai miei; ed essere orgogliosa di me.

L’esame? L’impegno deve essere maggiore e le lacune minori. La prossima volta andrà molto bene.

Il cuore di mio padre e il nostro andamento economico?

***

Mio padre era lì che assaggiava la pasta e toccava il sedere a mia madre; la tensione era calata. Mio fratello aveva appena riattaccato la cornetta: aveva chiamato la sua ragazza. Mi scappò di pensare a lei... giusto un attimo...

Ci sedemmo a tavola per pranzare. Un giornalista iniziò la sua orazione da dentro la scatola magica delle immagini: uno stupro, qualche tiro al bersaglio dai cavalcavia, qualche chilo di droga, un po’ di politichese.

Mangiavo e pensavo di essere fortunato a poter guadare quel fiume di petrolio nella notte. Il giornalista continuava a sputar notizie ed io, data la situazione generale del mondo, mi auguravo di non essere il solo a poter superare quel guado.


TRAGHETTO

 

 

Faceva caldo.

Non poteva essere diversamente, visto che era agosto inoltrato. Ma la nave non era affollatissima. Il mare era fermo, immobile come un vaso di fiori su un tavolo da cucina. Blu. Bellissimo. Libero. E suo fratello cielo era lassù, con le stesse caratteristiche. Contemplavano i loro pesci ed i loro uccelli. Ed accompagnavano lui dall’altra parte.

Aveva una camicia tipicamente agostana, con figure e colori sgargianti, quei rossi e blu da valletta televisiva. I capelli corti, come era solito avere in estate, con il gel. Gli occhiali da sole e l’abbronzatura tipica del periodo. Calzoncini corti, quelli della squadra, e Superga bianche, senza lacci, inseparabili.

Ascoltava il rumore dei motori ed odorava il salmastro. Ogni tanto si leccava le labbra e sentiva il sale, il sole, l’estate. Era salito sul ponte poco dopo la partenza. Aveva visto allontanarsi la costa pian piano, poi aveva cercato una panchina libera. E adesso era lì, la schiena parallela al mare, una felpa sotto la nuca, a cuscino. Il piede sinistro sopra al ginocchio destro. Una strana posizione, da pennichella, ma dietro gli occhiali da sole, gli occhi correvano veloci sulle righe di quel libro. Ogni tanto si fermava, prendeva la pagina bianca che usava da segnalibro e la matita che teneva all’orecchio e scriveva qualche parola: “L’universo non riesce a offuscarti; denti bianchi; amaca; arpa; Tommaso”. Poi, con calma, davanti alla sua macchina da scrivere, le avrebbe plasmate, quelle parole; trasformate, gestite e riciclate; uccise, per poi ridar loro nuova vita. E così sarebbero nati altri pensieri, racconti, poesie.

Sulla nave partoriva sempre buone cose. Eh, le navi! Così pesanti, ma così capaci di galleggiare. Un po’ come i problemi, quelli che non ti fanno mai concludere il respiro e che non ti fanno mai, durante le notti, chiudere tutti e due gli occhi assieme. Proprio come le navi, i problemi, così pesantemente ingombranti ma sempre a galla, al centro del cranio e della mente.

Era buffa la nave. Lo faceva pensare complesso. Già camminando, gli scappava di pensare che cosa ci fosse sotto i suoi piedi lunghi e veloci. Ma il mare... eh, il mare per lui era concettualmente... oceanico. Pensare al mondo senza mari voleva dire andare in Sardegna in bici od in America in treno! E cosa ci sarebbe stato sotto? I delfini, le balene, i relitti? Oppure i mostri che ispiravano i registi americani? O, ancora, altre civiltà?

Eh, il mare era diverso. Il mare lui lo vedeva così romantico, eppure così scientifico. Romantico perché il mare si mangia il sole al tramonto ed i vascelli nelle tempeste. Scientifico... non lo sapeva neppure lui perché lo definiva così. Ma era diverso dalla terra. Quando passeggiava, sentiva il battito cardiaco fin sotto i piedi e se si concentrava si confondeva con gli strati della storia, con le ossa degli eroi, con il magma del nucleo centrale. Eppure il pavimento del mare era la stessa terra! Ma era diverso.

Forse era scientifico perché, pensando alle emozioni, alle risoluzioni dei problemi, al cuore, alla psiche, si immaginava nell’uomo un oceano che, con le sue correnti, portava sentimenti al cuore, parole alla bocca ed idee alla testa. L’uomo, per lui, era filosoficamente definibile come un flusso oceanico racchiuso in un corpo. Come prendere un bicchiere di acqua del Pacifico: non è un bicchier d’acqua, è un po’ d’oceano! E per lui ogni uomo era un po’ d’oceano. Come spiegare altrimenti le passioni? Erano attimi di tempesta. Il sesso, il successo, le convinzioni. Tempeste ed uragani erano!

Sulla pagina bianca che usava da segnalibro, adesso c’erano una trentina di parole. Il libro se lo era bevuto tutto, proprio come la bibita ghiacciata che stava per andare a gustarsi al bar del ponte della nave. Si sedette sulla panchina. Stavano passando due sorelle tedesche, con un, anzi due, fondoschiena da uragano oceanico. Si alzò gli occhiali sulla fronte. Ecco, si scorgeva la Sardegna. Qualche metro più in là c’erano una coppia di fidanzatini, qualche donna abbronzatissima con anelli e collane aridamente pesanti ed un paio di comitive di amici destinate a qualche campeggio.

Si stiracchiò e si avviò al bar. Si voltò un attimo. Tra i due fondoschiena tedeschi si scorgeva la Sardegna: però, che paesaggio completo! E che idea quella di farsi, un giorno, quel tragitto con la bici!


STORIE MISERE MAI MISERE

 

 

I DUE

 

 

Erano abbracciati. Stavano guardando “Rain man” distesi sul letto di lui, sulla coperta marrone. Lui si emozionò e scese una lacrima. Lei la fermò con il polpastrello del suo esile dito indice e la assaggiò.

Poi disse: “Ho assaggiato un sorso di te ed ho capito che le tue emozioni sono buone… ti amo”. E lo baciò.

 

 

IN QUATTRO AL TAVOLINO

 

 

Eravamo in quattro al tavolino: io, l’ansia, la volontà ed il desiderio. Era questo che cercava di convincermi: “...da me, dipendete tutti da me”. E forse aveva ragione.

Se il desiderio diceva qualcosa, la volontà metteva le gambe in spalla ed iniziava a correre. E, spinta dal desiderio, correva sempre più forte. Ma più era veloce e più l’ansia cercava di raggiungerla, di arrivare per prima a quel traguardo al quale io stavo aspettando, per vedere chi dei tre sarebbe arrivato per primo.

 

 

SOGLIOLA

 

 

La sogliola, quando incontrava il pesce palla, riusciva a pensare cattivo. Era gelosa e vendicativa, ma era giustificata: la vita era troppo piatta per lei.

 

 

FRATELLI

 

 

Erano tre fratelli assurdi.

Il primo molto grasso, il secondo molto magro. Litigavano sempre ed il terzo, più calmo e normale, doveva riuscire a gestire i rapporti dei due fratelli minori. Una cosa, però, avevano in comune: erano tutti dolcissimi.

Ma stavano per morire!!!

 

“Si, poi mi mette anche quel babà, quel cannolo e quel diplomatico.”

“Faccio un pacchettino?”

“Sì, grazie. Sono i bigné per il compleanno di mia figlia.”


L’OPERA

 

 

L’aveva vista per la prima volta all’Opera.

Lei era lì, sul palco, a cantare. Lei era in alto, altera, eterea. Lei era al centro della scena; lei era truccata, profumata.

Sì, lui era lontano, ma sentiva l’odore di... ricco, nobile, inarrivabile, magico. Era una delle sue solite sensazioni strane. Lui, che adorava l’ignoto, il lugubre, la luna piena da gustare attraverso i rami secchi di un albero in cima ad un monte. Lui, che era lì per caso, perché il suo collega si era ammalato, perché il biglietto era stato un regalo e non era stato rivenduto, perché in quella stessa settimana quello stesso collega aveva avuto bisogno di un grosso favore: avere una copertura per salvare la sua storia extraconiugale. Già, infatti il posto alla sua destra era vuoto, per l’assenza dell’amante del suddetto collega.

E lui era lì, per la prima volta, ad ascoltare l’Opera.

Quanto piaceva a suo nonno! Grande uomo. Sentiva di poterlo dire anche se ne ricordava appena la robusta figura, dato che era morto quando lui era davvero piccolo.

E adesso lui era lì.

Rispetto a lei era in basso, al buio, sconosciuto dipendente delle poste italiane mischiato tra avvocati, notai, giudici, uomini di spettacolo, di sport e di cultura, politici. Mischiato a vestiti di marca, confuso tra profumi di marca. Lui, che si vestiva con le sottomarche del mercatino e che utilizzava il dopobarba del discount.

La sua prestazione fu divina. Uno scroscio di applausi, il bis, rose che volavano. E luci, e commenti e “Arrivederci avvocato... saluti la signora, dottore... ma si faccia baciare contessa...”.

Lui, a sipario calato, era come il dietro le quinte: solo, buio, malinconico. E con quell’aria da sognatore, il suo vestitino nero comprato al mercatino, le mani in tasca, cercava l’uscita tra tutto quel macello.

Alcuni dei protagonisti erano scortati, altri circondati da appassionati in cerca di un tocco, un autografo, un brandellino di costume. Non era una scena da teatro; non c’era mai stato prima, ma sapeva che non era abituale tutto questo caos. E meno male.

Si trovò la calca alle spalle. Per un attimo galleggiò: aveva ancora le mani serrate in tasca e senti un morbido sedere sbatterci contro, ma anche un gomito sullo stomaco ed un misto di sudore degli interpreti e profumi degli spettatori. La calca lo spinse nei corridoi. C’era rumore, buio. Una mano era ancora in tasca e... la manica della giacca era rimasta attaccata ad una maniglia... click.

Si aprì una porta. Lei era lì, seduta a struccarsi, quasi nuda. Lo guardo riflettersi imbarazzato nell’elegante specchio da camerino. “Mi deve consegnare dei fiori?”. ”Sì, be’, cioè…”. “E’ impossibile, non ne ha in mano; e non ha foglio e penna per l’autografo. Mi domando allora cosa potrebbe volere lei da me!”. Si stava togliendo il trucco dalle belle labbra carnose, mentre parlava. Intanto lo guardava allo specchio, ma non si era ancora voltata. Sembrava mangiarlo con gli occhi. “Peccato però, sia per i fiori che per l’autografo. Mi sono sbagliata. Credevo fosse quel signore seduto accanto all’unico posto vuoto di stasera, misterioso, affascinante, interessante, solo nel buio. Mi devo sbagliare, se fosse stato lei mi avrebbe già baciata. Non le dico come gli occhi di quell’uomo mi hanno golosamente osservato durante tutta la rappresentazione”. “No, veramente... come se non lo so... sì... ero io…”. Lei si voltò di scatto, rapida come un rapace, sinuosa come un felino. Lui era pallido, tremante; sudava, credeva di morire: in un primo momento per l’emozione, ma dopo... per la paura.

Sì, lei adesso lo guardava in modo terrificante. Era vero, non stava continuando a recitare. Lei lo aveva realmente notato. Lui, tra molti. Lui, unico. Lui, il prescelto. Con un gesto secco della mano e con le sue lunghe unghie affilate, lei si strappò quei pochi vestiti che le erano rimasti addosso. Era pallida, il suo sguardo era gelido, ma avrebbe sciolto i ghiacciai. Era sudata, fredda; la sua pelle, come in preda ad una strana reazione chimica, fumava. Lui impallidì ancor di più, ma sentì qualcosa di strano negli occhi. Con un gesto simile al precedente, lei strappò anche i vestiti di lui.

Lui, che fino ad un attimo prima avrebbe riso di se stesso pensando al suo esile e ridicolo fisico, si vide riflesso in quello specchio. E finalmente si riconobbe. Lei era eccitatissima nel vederselo lì davanti, nudo, vero, finalmente, dopo secoli. Aveva i seni alti, i capezzoli turgidi ed una strana bava alla bocca. Lui provò a dirle qualcosa ma... un suono animalesco uscì dalla bocca. Avevano entrambi i muscoli tesi, alterati, gonfi e lucidi. Lei gli saltò addosso, lo baciò con labbra che ormai sprigionavano fuoco; lui ululò e dal graffio uscì sangue infuocato.

Quell’attimo sembrò eterno. Il camerino iniziò a prendere fuoco. Grida animalesche accompagnavano il loro amplesso.

Lui adesso era alto almeno tre metri, potentemente muscoloso, viscido, dalle lunghe artigliate unghie delle zampe posteriori fino alla punta del suo corno. Lei aprì le ali, toccò le due pareti parallele ormai infuocate della stanza e, con uno sguardo, finì di incenerire la porta. Uscirono. Nei corridoi era il panico. Le due figure iniziarono a roteare in volo sopra il fuggi fuggi generale del pubblico. Alcune delle artigliate che dettero durante il volo colpirono due donne ed un uomo. Dopo pochi attimi le mostruose creature volanti erano cinque. Il teatro andava a fuoco. Arrivarono i pompieri, ma non c’era più niente da fare. Aumentavano le creature ed aumentava il fuoco. Dal teatro al Palazzo delle Esposizioni; dalla gioielleria al distributore di benzina; dal supermercato alle case, allo stadio. In poche ore la città era distrutta: fiumi di fuoco e sangue scorrevano sull’asfalto.

La città era distrutta. Anzi, la città era stata ricreata. Era tornato l’ordine. La città stava rinascendo ed era tornata loro, delle forze demoniache!

Il lato che tutti nascondevano di sé aveva vinto: il lato brutale, animalesco e passionale; non legato alle virtù ma ai vizi; non legato ai lieto fine ipocriti; quello che tutti profetizzano, ma in cui nessuno crede. Il lato legato alle nostre primarie e più sane passioni, quelle che se le tieni dentro senza osare, perché non credi in te stesso, possono creare grossi problemi, sia a chi va sempre all’Opera, sia a chi non ci va mai e vive nell’anonimato di un impiego alle Poste.


NON SI ERANO MAI NEPPURE SFIORATI

 

 

Tutta la giornata, si guardavano per tutta la giornata. Ogni giorno, ormai da mesi. Da quando Fabio e Ilaria, qualche settimana dopo essersi sposati, erano entrati in quella casa. Da quando le mani polverose e stanche di quel gruppo di imbianchini, muratori ed operai vari, avevano dato loro la possibilità di conoscersi, di vedersi per la prima volta.

Lui stava lì, in alto, brillante. Un po’ egocentrico, a brillare di luce propria. Lei stava là, umile, liscia, elegante. E lui da quel giorno, ad un certo punto della giornata, la faceva risplendere, le dava calore. E lei, riscaldata dal suo sguardo, sembrava essere distesa in quel modo per abbronzarsi.

Però, che assurdità! Così vicini e... non si erano mai neppure sfiorati. Non che avessero paura o chissà che. Non potevano proprio. Volevano, ma non potevano. E nella loro memoria non c’era quello sfiorarsi neppure nel viaggio che li aveva portati lì, in quel furgone.

La passione li uccideva. Era come mettere una Sachertorte davanti ad un diabetico goloso con le mani incatenate: una tortura!

E il tempo passava. Videro nascere e crescere i figli di Fabio e Ilaria. Così birbanti da molestare l’interruttore di lui e da fare il solletico a lei mentre giocavano sul pavimento.

E videro il primo giorno di scuola dei figli di Fabio e Ilaria. Videro il loro primo allenamento di calcio, il loro primo bacio, il loro primo esame all’università. E vedevano ingrigire i capelli di Fabio e Ilaria.

E intanto si amavano fedelmente, da sempre, per sempre, ma senza mai neppure sfiorarsi. Lui sempre lì in alto, lucente. Lei sempre là in basso, immobile. Si sarebbero amati per... chi lo sa? Forse fino a che un ipotetico nuovo proprietario non li avesse sostituiti con un neon ed un pezzo di parquet. O fino a che un terremoto non li avesse spazzati via assieme a tutto il resto della casa. Chi sa?

Dario e Nella non si ponevano il problema. Si amavano e basta. Ma quanto era brutto vivere una vita così vicini senza mai neppure sfiorarsi. Lui appeso ad un soffitto come un qualsiasi lampaDario. Lei sul pavimento, appiccicata a quelle quattro amiche pettegole ed invidiose come una qualsiasi altra mattoNella.


COME SE NON BASTASSE NEVICA!

 

 

C’è una pubblicità, non è una delle più nuove, sono già alcuni mesi che viene trasmessa. Recita più o meno così: “La vita... è questione di priorità”. Solo che la priorità è terribilmente e drasticamente soggettiva. E allora si parla di quanti centimetri una palla ha varcato una linea, mentre su un treno, se non deraglia, c’è un serial killer che ha diligentemente vidimato il biglietto.

E non consumateli così in malo modo quei pochi neuroni che avete! Per quei centimetri! La vita in fondo non è solo questione di priorità, ma anche di centimetri. Provate a chiederlo al vostro più caro amico e dopo ad un porno-attore, se non ci credete. Centimetri e priorità. Chiedetelo a un grande campione di basket o al ragazzino che nella casa di plastica adagiata sul ribelle terreno umbro o marchigiano, piange perché non può uscire a giocare a palla perché, come se non bastasse, nevica.

Centimetri e priorità!


DALLA SCRIVANIA ALLA STRATEGIA

 

 

Quante scartoffie c’erano sulla sua scrivania. Poco era lo spazio libero. E se avesse spostato qualcosa, avrebbe visto il perimetro, disegnato dalla polvere, di quel poco spazio. Poco spazio su quel piano verde, proprio come nella sua vita. E quante scartoffie. Proprio come nella sua vita.

Esplorando quello scarso paio di metri quadrati, qualsiasi persona avrebbe avuto chiara la distinzione tra l’opinabile ed il non opinabile. Così come lui amava fare nella e della sua vita. Qualsiasi persona, esaminando uno ad uno gli oggetti su quel piano verde, sarebbe stata capace di riconoscere la scartoffia dalla non scartoffia. Proprio perché certe cose non sono opinabili. E sarebbero rimaste veramente poche cose. Ma importanti. Nel cestino sarebbero andate a finire un paio di penne dall’ inchiostro ormai secco; qualche audiocassetta dal nastro ormai logoro; qualche biglietto da mille lire. Fogli e foglietti utilizzati come promemoria per impegni ultimamente non rispettati o per appuntamenti già scaduti; un paio di foto dai colori brillanti e lucidi, ma dai contenuti sbiaditi ed ingialliti; un bicchiere di carta con un fondo ormai solidificato di caffè e qualche mozzicone di sigaro. Qualche libro, un paio di schede telefoniche; un vecchio biglietto ferroviario.

E proprio in mezzo a quel poco spazio, un quaderno aperto con qualche frase scritta, timido tentativo di approccio alla preparazione di un esame. E sopra al quaderno, così come una eterea spada di Damocle pendeva minacciosamente sulla sua anima, pendeva una lampada, che però da un po’ di tempo non faceva luce né su quelle pagine bianche, né sulla sua anima.

Mai si sarebbe potuta vedere in quello stato quella scrivania, appena qualche mese prima. Perché qualche mese prima, su quella scrivania non c’erano scartoffie, ma solo cose utili, indispensabili, importanti. Tutte ben ordinate, al loro posto, sistemate sopra un piano verde lucido e pulito.

Ogni tanto scartoffie eteree, metafisiche, mentali, toglievano spazio non solo alla sua scrivania ma anche alla sua vita. E quello era proprio uno di quei periodi. Quel biglietto ferroviario doveva esser gettato nel cestino insieme a molte parole dette. Quelle penne dovevano finire nell’immondizia assieme a parole ascoltate. Quei biglietti da mille dovevano andare nel portafogli, perché ogni cosa ha il suo posto. Quelle foto dovevano esser chiuse in un cassetto, perché ogni volto ha il suo tempo. Quella polvere doveva esser tolta dalla scrivania e dai suoi pensieri. I sigari ed i caffè dovevano tornare ad essere piaceri, non vizi o abitudini.

Occorreva che quel quaderno tornasse ad essere solleticato dalla velocità pungente di una nuova penna, perché lo studio non era solo il suo presente, ma anche il suo futuro. E il futuro non era solo il giorno dopo, il Natale dopo, l’estate successiva, il prossimo esame. Era un gioco, una sfida, una paura. Uno stimolo a combattere, crescere, vincere, ottenere. Il futuro era un pensiero. Un pensiero con il volto del prossimo amico, con il sapore delle prossime labbra da baciare. Un pensiero nato nel viaggio successivo, davanti al prossimo tramonto.

Il futuro era il concetto per il quale l’indomani mattina quella scrivania sarebbe tornata ordinata, lucente e vivibile. Perché lui, come il comandante di un plotone che riposa ai piedi di un monte e che rivede le sue mosse perché una soffiata ha portato la notizia che il nemico è nascosto proprio tra i boschi di quel monte, avrebbe riorganizzato il plotone del suo cuore, l’artiglieria della sua anima, la cavalleria del suo pensiero, per cambiare strategia e tornare a vincere.


UNO

 

 

Nevicava come Dio la mandava. E Gustav lo sapeva, per questo bestemmiava tra un passo (lento e peso di doposci) e l’altro; con la sua giacca a vento.

Era la neve più fredda, quella. I tetti a spiovente delle case e della chiesa dimostravano da quanto Dio la mandasse e Gustav bestemmiasse. Anche i guaiti dei cani nelle notti di quel periodo sembravano più gelati. E le auto munite di catene tossivano prima di dare retta alla chiave che girava nel cruscotto.

Gustav era l’unico taglialegna aostano sotto i venti anni, ma aveva spalle e mani da gigante buono. Era bravo con falciotto ed accetta, ma scaricava forza, corpo ed anima quando impugnava la motosega per i tronchi più vecchi ed ostici. Occhiali scuri, paraorecchie a cuffia e tanta forza, contro un tronco che in quel momento rappresentava le avversità della vita.

 

 

DEUX

 

 

La fila era lenta ed il dubbio non era da poco: abbassare il finestrino per attenuare l’afa, ma essere avvolti dai gas di scarico, o evitare la respirazione di grigi, acri inquinanti odori, ma sudare gocce corpose e salate.

La mia autovettura era giunta all’ora della pensione. Sapevo che poteva abbandonarmi in ogni istante.

Forse c’era un incidente?! Lavori in corso?!

Rallentamenti su una strada… intoppi di una vita. Solo che non esiste una radio che avverte dei ritardi dei treni, dei litigi con genitori, amici, datori di lavoro o professori… al massimo ti mette in guardia sulla presenza di banchi di nebbia tra Firenze e Roncobilaccio. Già, perché tra Firenze e Roncobilaccio i banchi di nebbia ce li puoi trovare pure a mezzogiorno di ferragosto!

E nella vita non c’è neppure la segnaletica. Sai che bello se al posto di segnali come “Caduta massi” o “Rallentare” ci fossero cartelli mentali sulla strada della vita con scritto “Attenzione! il colloquio che credi ti stia per cambiare la vita in realtà ti imprigionerà per sempre ad una scrivania con telefono e computer” o cose del genere.

Non credo che la mente del compagno di sventura e fila, alla guida della vecchia Ford che io precedevo, partorisse le mie stesse considerazioni.

No! Eccolo lì, lo vedevo dallo specchietto retrovisore. Calvo, mezza età, occhialini tondi come il suo viso. Intento con l’unghia del dito mignolo ad esplorare la narice alla ricerca, diciamolo senza vergogna, di una piccola caccolina da appallottolare e gettare fuori dal finestrino della sua auto in fila.

Io e lui; stessa fila, altri pensieri.

 

 

THREE

 

 

Girava già da due ore, pedalando lento nella notte umida della periferia. Stava avvicinandosi al viale illuminato dalle fiamme dei barili di latta delle prostitute.

Dal parcheggio, fino al primo semaforo, si susseguivano sulla destra ermafroditi e travestiti di tutte le nazionalità; sulla sinistra, a lato del palazzetto dello sport, le nigeriane. Dopo il semaforo, a sinistra, nei pressi del campo di rugby, le russe e le polacche; dirimpettaie, le brasiliane e le francesi, insieme alle italiane di ogni regione ed età.

Anni prima, quando solo uno nella comitiva aveva auto e patente, quel giro lo facevano in sei su una Panda, per goliardiche serate di tutto fumo e neppure una fettina di arrosto. Ma da quando Elena lo aveva lasciato per un mezzo calciatore, aveva ripreso a girare di notte in bici e, certe notti, arrivava fino a lì.

Vedeva le retate della polizia; ma a volte vedeva quella stessa polizia fermarsi per contrattare sul prezzo.

Si sentì chiamare:

“Ehi biondino, dai che sei carino. Ti faccio lo sconto…”

“Non sono qui per sesso, lascia stare…”

Lei aveva un accento strano, forse era spagnola o portoghese, sebbene non avesse niente di ispanico e molto di finnico.

Con l’ironia e la sfrontatezza che hanno molte donne particolari, provò a stuzzicarlo.

“Ehi, guarda che se ti fermi e scendi dal sellino per fare due chiacchiere non ti serve il preservativo per non prendere l’aids!”

“Ma che dici, mi hai preso per un poppante?!”

“Perché, forse non lo sei? Non arrivi a venticinque anni, vero?”

“Infatti, ventiquattro, ma grazie alla primina e al sale nella zucca ereditato dai miei genitori, il prossimo mese mi laureo in medicina.”

“Wow, un collega?!”

“Collega?”

“Sì, io sono laureata in medicina all’università di Lisbona. Sono ormai sedici anni.”

“Sedici anni? Ma quanti anni hai? Laureata? Ma mi prendi in giro?”

Scese di bici e le si avvicinò. Aveva biondi capelli ricci ed occhi celesti, una silhouette da top model ed un fare provocante, ma non volgare.

“No, non ti prendo in giro. Ho quarantadue anni e sono di Barcellona; mi sono laureata in medicina e specializzata in cardiologia a Lisbona.”

“Che diamine ti ha fatto arrivare qui?!”

Parlarono tutta la notte, allontanandosi da quel posto assurdo.

“Sai che se tu volessi farlo adesso, non ti prenderei un soldo?”

Lui si avvicinò per baciarla e…

 

La sveglia suonò contemporaneamente allo schiaffo del suo fidanzato-padrone. Aveva dieci minuti per vestirsi e truccarsi ed andare a battere la strada.

Andare a battere come ogni giorno, con la stessa speranza. Trovare, un giorno, un altro letto, un altro uomo… un'altra vita.


TASTI

 

 

Lo conoscete tutti.

Lo conosci tu, che lavori in banca, mordendoti non più le unghie, ma le dita, ormai ucciso dallo stress.

Lo conosci tu, fidanzato infedele che chatti con grasse ragazze facili che si spacciano per verginelle modelle.

Lo conosci tu, poeta che, affossato dalla vita non quotidiana, ma settimanale di 40 ore di lavoro, stipendiato a 880 euro mensili, cerchi di volare almeno di fantasia insieme alla tua mente.

Sì. Lo conoscete tutti.

Lui è un lord inglese, forse. O un extraterrestre. Con quel nome!

Di certo so solo che abita accanto ad una donna che ama, ma non può toccare. Lei è una piccola donna bruna, con piccoli ma sodi seni. Lei è orientale: si chiama Yui Op.

 

Non ditemi che non avete capito!

Lo accarezzate ogni volta che dedicate una poesia, o leggete una mail, o scrivete al vostro amore, o fate i conti per vedere se la videoteca va bene o no.

Lo toccate mentre fate il servizio civile e siete in ufficio, o mentre programmate la settimana del tirocinio.

Lui è li, a sinistra! Sempre! Guarda caso.

Forse è per quello che è un amore impossibile.

            Lei è sempre a destra.

Eppure, in chissà quale mondo, quel lui e quella lei sono fatti l’uno per l’altra.

Due magari sono in Belgio. Altri due sono in bici in Irlanda. Altri due si danno il cambio in ospedale per il turno notturno di guardia medica. Due sono fratelli che si dicono a vicenda di non fare caso a certe cose. Ma predicano bene e razzolano male.

E ancora, altri due hanno litigato, perché lui dopo il pianoforte non le dedica mai il suo tempo, preferendo il sonno, mentre lei vorrebbe… cosa poi?

Due erano a scuola con me… Mario era il portiere della squadra della scuola; e Francesca, seppi che era innamorata di me. Ora sono morti, uno schianto in auto ed un tumore alle ossa.

Quattro magari sono a Roma, e due di loro partono per un’escursione in montagna. Sei stanno traslocando o ristrutturano casa. Due non si pensano più. Due ora stanno insieme, ma io li conoscevo da anni… prima del loro incontro. Uno mi scrive spesso ed è più maturo dei suoi pochi anni.

Chi è orfano di padre.

Chi di madre.

Chi ha ancora il figlio, ma non ha più il marito.

Chi non ha più moglie… e meno male.

Chi studia e fuma canne. Chi suona.

Chi è soddisfatto del suo lavoro… pochi… e chi no… molti.

Chi adesso allena e prima giocava.

Chi ha cambiato vita e chi non lo ha ancora fatto: aspetta le prossime mosse del destino.

Qualcuno è come me e non crede da mai. Altri non credono più. Io credo in una bottiglia di vetro nascosta in un muro calabrese.

Insomma, tutti, voi ed io… tutti.

 

Allora? Avete capito? Di chi parlo?

Siamo gocce in un oceano di immenso. Siamo un secondo nell’eternità. E ciò è ingiusto.

Allora non facciamo come loro due. Come Yui Op ed il suo innamorato.

Perché chi ci sta accanto magari ci vuole così tanto bene, ma non ce lo dice mai, perché la fretta del mondo non ci permette di stare uno di fronte all’altro a guardarsi negli occhi. Come succede… ai tasti piccoli, grigi, freddi e insignificanti della… tastiera. E’ lì che il signor Qwert e Yui Op stanno in fila. Sì, proprio lì, sotto ai numeri della prima fila della tastiera.

Hai visto ora? Stai guardando? Capito? Esatto! Da sotto il numero uno fino allo zero. In fila. Accanto. Ma mai di fronte.

Sono accanto e si ignorano.

 

Cerchiamo di non fare lo stesso.

 

Vi voglio bene.


ALLEGA FILE

 

 

Inebetita, vedeva il televisore.

Sì, perché dire che osservava la televisione forse era azzardato, dato il suo Q.I.

“Uhe’!”. Era cosi che rispondeva a lui ed all’altro coinquilino la mattina, nel sentirsi dare il buongiorno. I monosillabi la contraddistinguevano.

Troppo studio. Forse troppe parole, date e nozioni in quel piccolo, bitorzoluto, nonché completamente antiestetico corpo; così poco femminile che, forse, anche le correnti e gli autori, inculcati solo a pappagallo, sarebbero voluti uscire.

La sua idea di lei era questa. Ma non era cinismo o cattiveria, quella di lui. Né tanto meno, ovvio, gelosia. Il problema era un altro, per lui. Ossia il fatto che lei comprendesse tutta una serie di archetipi femminili, ma anche tipici della specie umana in genere, che non sopportava.

Silenziosa, ma non in modo intelligente, come potrebbero essere intelligenti i silenzi di una Rita Levi Montalcini, che dall’alto della sua cultura ti ascolta parlare della schismogenesi di Bateson.

No. Silenzi, mentre faceva finta di fare le pulizie; mentre cucinava, alla media di sei giorni a settimana, melanzane alla griglia. Silenzi nelle infinite ore di studio, per poi prendere ventisette! Silenzi, intervallati dagli “Uhé” mentre al cellulare, che utilizzava almeno sei ore al giorno, sparlava di un certo Onofrio, suo pseudoamico del paesello di provenienza.

Eccolo, poverina, un altro fattore che lui non sopportava: il paesello. Quello dal quale la femmina che sta per divenire studentessa fuori sede, parte suora. Poi, trovata la stanzetta in affitto in una città lontana… due ipotesi: la prima, divenire una emula di Ewa Orlowsky o Moana Pozzi e recuperare il tempo perso al suddetto paesello, facendo passare calori, sudori, amori ed umori dei più disparati e disperati; la seconda, dormire, nutrirsi (che è diverso dal mangiare), espellere feci ed urine, studiare.

Un elemento, però, unisce le due ipotesi: una distorta visione etico-filosofica della vita quotidiana, farcita da fedi oppiacee o visioni politiche campate in aria. Ossia? Ossia si passa da stanze con posters di Morrison, Guevara e mura intrise di odore di canna, a stanze con Padre Pio e Wojtyla che vegliano su vocabolari di greco e videocassette di Alberto Sordi.

Lui si era davvero stufato di sentirsi dire da tutti che conosceva solo i bianchi ed i neri, senza considerare l’esistenza dei grigi, per poi vedere che, in fondo in fondo, erano gli altri ad estremizzare una vita nella quale, invece, lui cercava di riemergere dopo ginocchia rotte, licenziamenti per ingiuste cause, brutti voti universitari, frutto di proteste a muso duro davanti al grugno dei professori, separazioni da mogli che poi ti fanno minacciare di morte da un padre che di umano ha ben poco e, anzi, ricorda goblin ed orchi Urukai di Tolkeniana memoria.

Sì, lui si era davvero stufato. I simboli? Le fedi? Le parole? Ma perché le persone non iniziavano a fare! Agire! Nella vita occorrono cose concrete. Sacrifici. Cose da toccare, come il seno di una donna, la carezza di una madre, il salato di una lacrima di un padre che piange se vede un servizio su Enrico Berlinguer, la pacca sulla spalla di un amico che non dice di esserci, ma c’è!

Oppure…

Un bel libro che ti cade su un piede e, facendoti male, ti dice che quella è la realtà! E non quella che esce dal tubo catodico, produttore di quinte di seno, mamme preoccupate di non avere la candeggina che non fa arrabbiare la suocera, coppie che aspettano altre coppie e che son disperate perché forse tre quarti di Glent Grant potrebbero non bastare…

Tubo catodico che, se c’è una pubblicità su una nuova marmitta catalitica, in orario in cui la tele è vista pure dai ragazzini, perché non farla fare da una bella biondina che succhia la suddetta catalitica, mezza nuda, dentro una vasca da bagno?! Ma cristo! Ogni cosa da pubblicizzare necessita di un culo o di una tetta?

Ecco! Per lui, lei, che vedeva gli amici di Maria, i cugini di incantesimo, chi vuol essere milionariocosìtiprendiisoldietilevidallepalle, ecc. ecc., era l’archetipo dell’inutilità. Però, alla fine, a stare male non erano quelli come lei, ma come lui.

Lui. Sì, lui stava male.

Il giorno stava male, perché solo il lavoro andava bene; solo sul lavoro stava oggettivamente bene, ma non si vive di solo lavoro.

Lui, che stava male di giorno perché non riusciva più a scrivere o leggere, a dipingere o ad andare a correre e giocare a calcetto. Lui, che stava male di notte perché i mali dei suoi genitori, che di giorno erano reali e minimamente gravi, la notte, nel sonno e nel sogno, anzi nell’incubo, diventavano tragedie.

Stava male di notte, perché non dormiva. E se dormiva, un incubo lo svegliava, sudato. Allora, nel buio, ad occhi chiusi provava ad allungare il braccio, con la speranza che, in un letto a due piazze, ci fosse il corpo bello di una bella anima. Invece il braccio andava giù, dal peso; giù, perché il letto era ad una piazza. E non c’era nessuna lei dalla bella anima e dal bel corpo.

A volte, meno di quelle che avrebbe potuto ottenere solo volendo, nel letto ad una piazza c’era il bel corpo di una donna, attratta non dalle sue poesie, o dai suoi quadri, o dal suo modo ridente di parlare del suo lavoro, dei suoi sogni, della sua famiglia. Il corpo bello di una donna che non aveva una bella anima, attratta dal suo sorriso e dal suo sedere. Che poi, in fondo, aveva ragione sua madre: “Ma che ci troveranno in questo asparagione lungo e secco!?”.

Sì, lui era stufo. Non era vero che lui non accettava né vedeva i grigi. Lui non sognava la scopata cosmica con la pseudovelina di turno, come era successo proprio il venerdì precedente. Lui sognava di rifare l’amore, sì, con un bel corpo, è vero, non lo negava, ma che subito prima avesse colpito la sua attenzione, così come subito dopo l’orgasmo! Sì, un bell’orgasmo celebrale, un amplesso non solo fisico e fisiologico, ma anche intellettivo: due parole polemiche sul Berlusconi bis, una battuta su quel film di Nanni Moretti o su quella poesia di Pessoa, che sembra scritta apposta per quel quadro di Modigliani. E, dopo l’amplesso cultural-platonico, l’amore. Quell’amore che non è abitudine, che si fonde col sesso, che si mischia alla seduzione ed alla sensualità. Quell’amore che gioca col cibo e le penombre, con le musiche di sottofondo ed i foulard per legare e bendare. Quell’amore ritmo e movimento, corpi all’unisono, battiti all’unisono, respiri e gemiti all’unisono. Non due entità estranee, ma una sola, unica, splendida cosa, pulsante di emozioni e sensazioni. Di vita.

Lungi da lui credere che l’amore vuol dire unione perfetta senza litigi e fatto solo di risa ed abbracci. Ma cazzo, neppure accontentarsi! Era arrivato il momento di dire basta.

I rapporti interpersonali erano fatti dal veniamoci incontro? Oh sì, fino ad allora sì. Non più, per lui! Non più, da allora in poi!

Sei buddista ed i demoni ti inseguono se non reciti? Problema tuo! Sei cristiano cattolico praticante, inbigottito dall’oppio di una chiesa che il preservativo no, la sega no, l’aborto no, il sessantanove no, la pecorina, boh, magari andiamo al referendum? Problemi non suoi! Sei oppiacizzato dal presidente che, vinti gli scudetti, ora scende in campo? Cazzi tuoi! Non suoi!

Ognuno ha ciò che merita. Ognuno è ciò che merita! Lui non era né aveva ancora ciò che si sarebbe già meritato di essere e di avere.

Ma finì il suo nuovo raccontino, scritto dopo mesi di nulla. Lo terminò con gli occhi lucidi ed un respirone, conscio del fatto che viveva in una stanza tre metri per tre, che suo fratello gli era ormai lontano e che i suoi genitori non stavano bene: le leggi della vita e dei suoi cicli. Consapevole che guadagnava meno di ciò che dava nel suo ormai finalmente importante lavoro: non vendere magliettine large o minigonne fucsia, ma aiutare ad arricchire l’educazione e la cultura dei suoi utenti, con ilarità ed entusiasmo.

Altro sospirone. Pensò alla sua laurea ed alla sua auto, parcheggiata fuori. Ai suoi pochi, cari, lontani, ma veri amici. Mise il punto.

“Crea messaggio”. “Allega file”. “Invia messaggio”: il raccontino viaggiava nell’etere. “Messaggio inviato”. Rise di gusto, con gli occhi lucidi.

 

Ah ah, che stupido sei… usi la terza persona, ma chi ti vuol bene e ti conosce, capirà!


L’IPERMERdCATO…

 

 

Erano quattro amici. Non di quelli affiatati dai tempi del liceo o delle scuole medie. Si conoscevano da poco e, a primo vedere, non avevano nulla in comune tra di loro. Eppure erano amici. Non una sola cosa che accomunasse i quattro “addetti vendita”, come venivano chiamati. Anzi, una sì: erano tutti terribilmente fuori posto in quel ruolo, in quell’ipermercato, in quella nazione, in quel mondo.

Mauro era felicemente fidanzato, stava iniziando l’iter burocratico (che così poco ha a che fare con i sentimenti) per il matrimonio. Marina, la sua fidanzata, era un’inguaribile romantica ed era riuscita ad addomesticarlo. Sì, perché Mauro, prima, ne aveva fatte di cotte e di crude. Con le donne, con gli amici, con lo studio. E proprio mentre il suo cervello imponeva un cambio radicale, atto a spolverare via quella sindrome di Peter Pan che lo inseguiva da trent’anni, aveva incontrato lei, riccia, bruna, magra, di un pallido elegante che faceva risaltare il marrone-verde dei suoi occhi. Si adoravano.

Mau lavorava al reparto piccoli e grandi elettrodomestici: lavatrici, computer, televisori, parabole, telefonini e simili.

Stefano era il belloccio del gruppo. Taciturno, ambito dalle donne, fisico atletico da calciatore, quasi quarant’anni e non sentirli. C’erano giorni che, per la folta chioma e la barba incolta, non sapevi se incasellarlo tra i talebani più mordaci o fra i gruppi estremisti dell’anonima sarda. Aveva alle spalle un matrimonio fallito, non certo per colpe sue, ma per una ex moglie, senza usare prosopopee od eufemismi, troia. Aveva alle spalle un fratello tossico e la morte di un altro fratello innocente, reo solo di aver incontrato uno stronzo di quelli che non danno la precedenza agli stop. Eppure, il suo essere bello e maledetto lo portava ad essere ammirato dal gentil sesso.

Si schifava quasi, ormai, anche a vedere le coppiette baciarsi, con i bambini negli appositi carrelli del supermercato, messi lì così, come pacchetti, così come, ad altre latitudini mentali, si mettono nel cassonetto dei rifiuti. Ma i bambini li adorava. Il suo problema erano i grandi; anzi, gli adulti, che è diverso!

Stefy, così come lo chiamavano gli altri, lavorava al reparto bibite: lattine di coca e aranciate varie, vino, acqua, succhi ed integratori.

Roberto, il più giovane, era il latin lover della situazione. Faceva scivolare bigliettini con parole d’amore e frasi smielate nelle buste delle clienti, oppure scriveva il suo numero di telefono in un fumetto che faceva parlare un piccioncino disegnato in caricatura sulle confezioni di pizza che dava loro.

Il pizzaiolo del reparto gastronomia: occhi verdi, capelli brizzolati nonostante la giovane età, un fare elegante ed educato anche quando pronunciava semplicemente quanti euro costasse una pizza capricciosa od un calzone pomodoro e mozzarella.

Ogni tanto, a fine turno, quando usciva alla chiusura dell’ipermercato, chiedeva a qualche collega del tessile o del reparto scatolame, dove oggettivamente lavoravano le più carine, se volevano un passaggio. Succedeva con le sposate, le fidanzate, le divorziate, le single, le fedeli, le infedeli, le belle e le brutte, senza distinzione. Perché il suo bello era quello: l’importante era la quantità. Un po’ come i personaggi del secondo Alberto Sordi.

Roby: uno spaccone dal cuore in fondo buono, che faceva una tacca alla spalliera di legno del letto ogni volta che faceva una conquista.

Il quarto moschettiere era Giovanni. Calvo, pancetta, mani grosse, occhi tondi. Uno di quei brutti che piace subito dopo aver aperto bocca. Sarà stata la parlata, sarà stata la pelata, sarà stato quel suo essere ottimo barzellettiere, era uno di quelli che le donne le prendeva col riso.

Cassiere, unico tra una selva di cassiere femmina, tutte in papillon e minigonna. Lui, che veniva preso in giro: “Jack”, lo chiamavano, “se ti depili, la danno anche a te la minigonna blu!”. E lui incassava, con indifferenza, perché era consapevole che, anche se non aveva mai preso la laurea, il suo scrivere, il suo dipingere, lo rendevano diverso, quasi superiore e perciò invidiato. La sua etica, la sua non religione, la sua politica ormai defunta, date le impurità delle sinistre rispetto al suo essere comunista, lo rendevano corazzato, ma solo a livello fisico: infatti… prozac… polase… xanax… en… insomma, ansiolitici, psicofarmaci, antidepressivi… e poi ulcere, attacchi di panico, ansia, coliti spastiche.

Il suo problema erano le parole. Importanti e più pesanti dei televisori e delle lattine che alzavano ogni giorno Mau e Stefy. Più roventi delle pizze che sfornava Roby. E a lui facevano peggio di uno schiaffo.

 

Mau, Stefy, Roby e Jack. Sembravano davvero i quattro moschettieri, i quattro dell’oca selvaggia: sembravano un cast hollywoodiano. Quattro attori, o quattro nuovi acquisti di una grande squadra, presentati dal presidente ed osannati dai tifosi.

Sì, sbagliavo a dire che non avevano nulla in comune. Mau amava solo lei; come Stefy amava lo sport; come Roby amava tutte le donne; come Jack amava pensare ad un mondo senza ipocriti o ignoranti che si fanno fregare da imprenditori improvvisati politici.

Altroché se non avevano nulla in comune: la data dell’assunzione, l’antipatia per i rispettivi quattro capireparto, l’odio per il concetto “Il cliente ha sempre ragione” e, soprattutto, lavorare lì, insieme, in quello che loro, dal primo momento che si erano visti negli spogliatoi, tra stipetti grigi di colore e significato, chiamarono l’Ipermerdcato.

In effetti, considerando la cultura di Jack, la laurea di Mau, il tuttologismo di Stefy (era stato un buon calciatore, amava la caccia, sapeva tutto di botanica, faceva il verso degli uccelli e disegnava rettili come nessuno mai) e le esperienze di Roby (aveva fatto praticamente tutto nella vita: il commesso, il cassiere, il centralinista, il promoter, il maniscalco e chissà quante altre cose), be’, dicevo, in effetti, quello non era un market, ma un posto di merda, agli occhi dei quattro amici.

Alcune volte, le domeniche o le sere che avevano la fortuna di uscire da lavoro tutti non tardissimo, si incontravano. Pub irlandese a bere irish coffee con musica di sottofondo, oppure cinema, o posticipi di calcio con cantuccini alle mandorle e vinsanto. Mauro e Marina, Stefano sempre in solitario, Roberto sempre con una diversa, rossa bionda, bruna o castana che fosse, e Giovanni una volta con Elena ed una no.

Già, perché tra i due c’era una storia d’amore, ma non una storia d’amore come le altre. Una di quelle storie d’amore dal titolo alla Wertmuller: storia d’amore, d’amicizia, di sesso, di “scusa ho tradito ma non lo faccio più”, “ah sì davvero ma anche io una volta l’ho fatto per cui uno pari ricominciamo”… Insomma, un tira e molla che andava avanti da undici lunghi anni. Lascia e prendi, prendi e lascia e riprendi. Stavano bene insieme, ma non chiedete a nessuno come facessero. Lui, comunista areligioso. Lei, battezzata, comunicata, cresimata, nonché scaricata dal suo ex perché si era innamorato… di un amico di lei. Si erano conosciuti al cambio dell’ora di analisi. Caso volle, infatti, che andassero dallo stesso analista: lui per le coliti e lei perché non capiva cosa avesse meno dell’altro… e questo preoccupava. E caso volle che l’analista, per alcuni mesi, avesse dato gli appuntamenti il martedì dalle 15 alle 16 a lui e dalle 16 alle 17 a lei. Conosciuti di vista a questi cambi dell’ora di strizzacervellologia, si erano poi incontrati una volta in biblioteca: lei riportava un libro sulla storia di Giovanni Paolo II e lui ne prendeva uno su un saggio su Antonio Gramsci. E abbiamo detto tutto.

L’ipermercato, pardon, l’ipermerdcato era enorme, uno dei più grandi della regione. Trentasei casse, suddivise tassonomicamente in casse per soci, per pagamento con il bancomat, per pagamento con assegni, per pagamento con contanti: insomma, alle ore di punta, ad esempio il sabato pomeriggio verso le 18… tanti piccoli automi asessuati in fila con i cinquanta euro tra il pollice e l’indice o la “visa” in tasca o l’assegno nel portafoglio. Bel quadretto da Orwell, in effetti, non credete?!

Come facevano i quattro moschettieri a non uccidersi in un posto che tarpava la creatività e la fantasia? Un modo c’era!

Ma per alcuni, magari i disoccupati che al giorno d’oggi, aspettando uno di quel famoso milione di posti di lavoro e non avendone visto ancora l’ombra, lavorare a un ipermercato è lontano dal concetto di rischiare il suicidio.

Forse è bene se vi illustro la giornata tipo dei quattro sventurati, gli ambienti, gli eroi e gli antieroi di questa vicenda epica, ma dei giorni nostri.

I capireparto erano di quelli che fanno finta di lavorare. Ad esempio, macinavano chilometri attaccati al cellulare di servizio, ma alla fine, spesso, era con la fidanzata, l’amante o la moglie che parlavano. Ma non stiamo a perdere tempo nelle descrizioni, prendiamone uno solo come archetipo: il caporeparto dello scatolame. Aveva sì e no trentacinque anni e invece sembrava il nonno di Roberto, gobbetto, calvo a metà, vestito firmato, ma sempre sbracato, con la camicia mezza dentro e mezza fuori dai pantaloni. Basta dire qual era il suo nome e come veniva chiamato dagli stessi colleghi capireparto: Tommaso. Da qui, Travaso.

Ma a parte questo, tutto bene. Si trattava di arrivare dieci minuti prima dell’inizio dell’orario di lavoro, timbrare un cartellino per entrare nel palazzo, ritimbrarlo dopo sei metri per salire le scale, timbrarlo ancora per entrare negli spogliatoi. Qui la vista era a dir poco disarmante: pareti sporche, pavimenti sporchi, soffitti sporchi e, da terra fino al soffitto, appunto, lungo tutto il perimetro della stanza poco illuminata, enormi stipetti omologati, senza un nome, ma solo un numero. Un odore acre di piedi sudati ed alcune figurine Panini attaccate qua e là sugli armadietti e contornate di scritte tipo “Juve merda”, sotto un Del Piero decapitato da un uniposca nero, o “Negro di merda”, scritto sopra un ormai non più milanista Marcel Desailly.

Ogni impiegato, perché, da contratto, questo erano i lavoratori del grande supermercato, aveva una chiave con un numero ed un armadietto relativo. Dentro, tanto per tornare a George Orwell ed al suo “1984”, quattro tipi di vestaglie: verde per l’ortofrutta, bianco per gli elettrodomestici, azzurro per lo scatolame e grigio per le bibite. E poi le scarpe antinfortunistiche: forse quattro chili di peso da portare per ogni piede, con conseguenti calli e bolle sotto le piante dei piedi. Extra l’abbigliamento delle cassiere e di Jack, unico cassiere maschio. Per le donne minigonna blu, camicetta bianca e papillon arancione, con scarpe blu scure. Per Jack stesso papillon, stesse scarpe, ma senza tacco, stessa camicia bianca, per fortuna da uomo, e pantaloni color della minigonna. Arrivati, cambiati ed indossati i panni da lavoro, si scendeva le scale e per i più fortunati si timbrava ennesimamente il cartellino per accedere all’area vendita. Mau, invece, prima di questo doveva anche mettere la firma su un foglio in portineria per dichiarare di aver preso la chiave per aprire le vetrine dei cellulari e dei rasoi elettrici. Una volta nell’area vendita, si accedeva al magazzino e… indovinate? Timbravi il cartellino per l’orario di inizio di lavoro. A fine lavoro, ritimbri il cartellino, rifirmi e dai la chiave, ritimbri per salire le scale e anche per aprire gli spogliatoi: qui il terribile odore di piedi ora si aggiunge a quello di sudore, apri lo splendido armadietto, ti togli le comode scarpine da ballerino, scendi le scale e timbri per uscire dall’edificio. Tutto questo considerando che siamo nell’era di internet e dell’informatica avanzata, ma che per poter vendere una lavatrice non hai un personal computer per sapere se l’elettrodomestico è disponibile o meno, bensì devi andare in magazzino, dove tutto è allegramente messo in disordine, e controllare di persona, il che comporta far aspettare il cliente che o troverai imbestialito, o sarà andato via alla ricerca di un disservizio meno evidente.

Questa la premessa, cari disperati in cerca di lavoro, che di primo acchito potreste invece invidiare un contratto da impiegato. Oddio, se io penso ad un impiegato mi viene a mente una giacca ed una cravatta, magari in posta, o in banca; i nostri amici sono impiegati nella misura in cui qualcuno impiega il loro tempo, schiavizzandoli, ma non dando loro la possibilità di rivolta, dato che il cndl, ossia il contratto nazionale del lavoro, dice che devi essere contento di sfacchinare per 36 ore alla settimana, con un orario non continuato, un contratto a tempo determinato, un caporeparto che davanti alla tua laurea sbaglia i congiuntivi, il tutto per un milione e settecento ventinove mila lire… tanto per chi non avesse ancora ingranato con l’euro!

 

Eppure i nostri eroi resistevano. Come? Grazie al detto che spesso mia madre dice e diceva: “Chi ha più cervello lo usi”. Contro l’atrofia a cui il cervello può andare incontro, c’è soltanto quella che Roberto Benigni ci fa notare essere l’anagramma di risata: la satira. E cosa c’è di più divertente, se non umiliare le persone ignoranti con la tua cultura, per di più senza farlo notare!? E vi assicuro che un ipermercato è un macrocosmo di nefandezze: altro che i congiuntivi di Travaso il caporeparto! I volumi delle tv e degli stereo hi-fi al massimo perché il cliente brutus vuol sentire i bassi. Il fiato che ti inonda il viso quando un altro cliente, che ha poca dimestichezza con il Mentadent, si avvicina e ti chiede: “Scusi la differenza tra l’Aiwa e la Samsung”, pronunciando le a e le s belle aperte. Se sei sfortunato, capita pure che oltre al fiato che senti, vedi anche la dentiera muoversi tra la richiesta del costo di un sugo star ed una lattina di limonata. Sorvoliamo sul sudore, dato che è un problema che non cambia neppure considerando la variabile stagione estiva o invernale.

Sì, il sistema migliore per i nostri quattro eroi era combattere il nemico a colpi di parole non dette e solo pensate, sorrisi falsi che celano disgusto, menzogne spudorate, come quelle sulle classi di consumo degli elettrodomestici!

 

“Sono le ore otto e quarantacinque, si ricorda a tutti i dipendenti di prepararsi all’entrata dei clienti ed all’apertura dell’ipermercato”: è ciò che dice la voce dai microfoni posti dappertutto. Parte il sottofondo musicale, ma non quello degli hi-fi, per cui i due sonori si sovrappongono in una simpatica confusione. Il che non guasta se si considera che il sottofondo musicale è lo stesso giorno dopo giorno, settimana dopo settimana, ora dopo ora, a rotazione. E non credete di ascoltare Guccini o Venditti, né Chopin o Mozart: Umberto Tozzi che non vola non vola e non vola e non vola più con te! Cazzo, ma vola da solo e non coinvolgere noi! Il perfetto sconosciuto che dice che entro il 23 lei amerà lui. Ma sono sentimenti o scadenze di cambiali?! L’altra: balla fino a che pace non c’è! Ma sfotti!? Io odio ballare, ma esiste al mondo gente come Gheddafi, Saddam e Bin Laden. Devo rimetterci io?! E poi quei tormentoni estivi di Paola e Chiara che, o sono lesbiche e fanno incesto, o non sono sorelle ma sono lesbiche, o hanno sfondato perché hanno dato il cesto. Insomma, un excursus che peggio potrebbe andare solo con Mino Reitano e Claudio Villa, pace all’anima sua.

“Sono le ore nove e l’ipermercato dà il benvenuto a tutta la clientela”, dice la vocina un quarto d’ora più tardi. E di lì a pochi secondi… come se fosse scoppiata la guerra… come se dovessimo cementarci tutti in un bunker ed avessimo bisogno delle scorte… arriva un’orda di barbari. Carrelli, carrellini, carrellini per i bambini a forma di automobilina, pensionati che vengono per vedere culi, ragazzine di quindici anni che, come dicevano gli Stadio, ne dimostrano quasi trenta, donne di cinquant’anni che vengono per sentirsi ventenni vestite con bermuda versione acqua alta, piercing agli ombelichi e tatuaggi in ogni dove, casalinghe frustrate che adocchiano commessi e mamme che non sanno gestire i figli che, coi loro carrellini, pestano i piedi ai pensionati, che bestemmiano mentre non smettono di guardare i culi, alternando quelli delle ragazzine a quelli delle matrone.

Alle 21, dopo 12 ore ed impiegati che hanno timbrato e timbrato cartellini, la vocina proclama: “Sono le ore 21, l’ipermercato vi saluta e vi dà appuntamento a domani”. Ma chi sei? La Sampò? Dove sei? A San Remo? “Ed ora i Matia Bazar”. Tutte queste dodici ore sono passate con l’addetto alla sorveglianza all’entrata, altri colleghi in borghese in mezzo agli scaffali per evitare gli scippi eppure… gente che ha sete, apre il succo e beve. Gente che ha fame, apre il Kinder e si sfama. Cos’altro vi aspettate? Che la direttrice divida per voi pani e pesci, tette e peni?

Sembra impossibile, ma i quattro avventurieri reggono l’urto di tutto ciò.

 

In magazzino, ai confini con l’area vendita, spesso i nostri eroi si i incrociano, dato che, a differenza dell’area vendita, i magazzini sono confinanti. Ed il loro sfogo verte anche sui colleghi, non solo sui clienti.

Area tessile, due ragazze si mettono d’accordo sul lavoro: “Senti, io faccio la pesca. La caccia la fai tu?!”, che tradotto in termini tecnici vorrebbe dire: “Senti, io sistemo le tute mimetiche, le tolgo dalle scatole e le metto nelle grucce. tu fai lo stesso con gli impermeabili da pesca e gli stivali al ginocchio?”. Nel frattempo transita Mau che divide il pensiero dalla parola:

parola - “ciao colleghe, tutto ok?”

pensiero - “Dio mio, come fanno ad essere della stessa specie vivente di Marina. Io faccio la caccia e tu la pesca?! Ma chi siete, donne di Neanderthal?!”.

Transita Stefy e le due colleghe, che stanno facendo una la caccia ed una la pesca: “Ehi Stefano, a che ore esci? Mi daresti un passaggio al pub di mio fratello?”. Stefano risponde a pensieri e parole, meglio di Battisti:

parole - “Non lo so, forse devo fare un’ora di straordinario”

pensieri - “Sì, straordinario: è straordinario come siate tutte ugualmente puttane”

Transita Roby e dice una cosa alle colleghe, ma ne pensa un'altra:

dice - “Ragazze, caccia e pesca anche oggi?”

pensa - “Ma guarda che bel culetto la Mariangela, non lo avevo mai notato, sto invecchiando?”

 

In tutti e quattro i reparti dei nostri eroi, era presente il mitico apparecchietto “alla fila ci penso io!”. Sì, insomma, la piantana che termina con una sorta di cerchio che contiene una striscia di numeri e che, collegato ad un display, indica ai clienti lo scandire dell’ordine da seguire per essere serviti.

Ed in ogni reparto l’apparecchietto non aiutava, ma serviva solo ad evidenziare il target dei clienti soci e non soci dell’ipermercato.

 

Mauro era entrato all’apertura delle porte al pubblico. Erano già tre ore che, come ogni sabato mattina, il caos imperversava tra carrelli guidati da vecchietti senza patente e piccoli bambini che rimbalzavano come palline impazzite una volta svincolatisi dalle grinfie delle madri troppo attillate ed impegnate a farsi mirare. Mau schiaccia il pulsante ed il display indica l’ottantuno, numero che la sua voce squillante e decisa urla come quando lavorava nelle sale bingo della capitale. Il numero ottantuno si avvicina e balbettando dice: “Volevamo… volevo… cioè… mia moglie…”: si guarda intorno e non la vede. Il numero sul display era quello del signore che aveva perso la moglie, il numero ottantuno, ma dopo di lui una lunga fila di altri 16 numeri aspettava impaziente e lui, il cliente dalla moglie persa, sempre balbettando: “Accidenti… era qui… volevamo una lavatrice, ma… aspetti… è mia moglie che comanda e… dunque… posso chiamarla al cellulare…”. Chiamarla al cellulare? Con 16 persone dietro, in fila, che guardano minacciose Mau. E la moglie? Due reparti più avanti, al reparto di Stefy, che con una sua amica lo ammirava ammiccante. Ed ecco che l’amica della moglie, sventolando il numerino dell’apparecchietto magico, pronuncia le fatidiche parole: “Guardi giovanotto, sta a me, sono il 12”. E Stefy, infatti: “Signora, sto servendo il numero 5, che è questo arzillo signore, per cui, se la matematica non è un’opinione, a lei starà tra sette numeri”.

Nel frattempo, alla pizzeria, Roberto aveva a che fare con una coppia sulla trentina davvero non male. Dietro al banco, sempre con quel suo fare da latin lover, nei momenti di calma, quando i colleghi del magazzino portavano il pane e la schiacciata calda, prendeva un attimo per sistemare i prezzi: grossi numeri neri su enormi fogli gialli, alias, più facile che vedere Zorro nella neve. Ma la giovane coppietta sulla trentina, lui balestrato e lei tatuata e col perizoma nero sotto i pantaloni attillati bianchi, chiede impietosa: “Scusi, ma quanto viene questa torta salata?”.

Robi: detto - “Guardate, c’è il prezzo lì in basso, sul foglietto”

Robi: pensato - “Ovvio che non vediate i prezzi: lui è troppo impegnato a far pagare il biglietto ai clienti che vogliono toccare il ferro dei suoi muscoli perché superstiziosi; lei, forse, è stata tatuata pure su palpebre e pupille, per questo non si perde nei miei occhi, ma sta con l’invertebrato che, in preda al complesso della vagina dentata, cerca di scaricare le sue frustrazioni coi pesi in palestra davanti a pareti di specchi”.

Anche ai reparti del pesce e della carne non stavano meglio. Tutto l’ipermercato lamentava l’assenza di una mensa, dei corsi di formazione per i movimenti dei pallet e delle colonne elettriche nei magazzini. E là dove si scampava alle file ed ai numerini dell’apparecchietto… c’era da divertirsi.

Giovanni, alle casse, viveva in un ruolo da dottor Jeckyl e mister Hide. Jack e la sua pelata, il suo modo di fare, la sua precisione, il suo papillon arancione, la sua gentilezza… da fuori, nei confronti diretti dei clienti! Ma dentro, un mostro di sadismo e satira e cinica comicità.

Carrello standard del sabato mattina. Una coppia di ragazzi mulatti mettono sul tappeto rotante della cassa una quantità impressionante di carne bianca e rossa: pollo e tacchino, macinato e bistecche, vitella ed arrosto. Per un totale di 139 euro.

Jack: detto – “Sono 139 euro, signori, grazie”

Jack: pensato - “139 euro di carne bianca e rossa. Così a mente vuol dire 278 mila lire. Sono in due, perché spesso vengono alla mia cassa e non hanno figli e neppure le fedi al dito. E vengono almeno una media di una volta a settimana. Mai che io li veda comprare vino o pesce, birra o gelato… sempre carne bianca e rossa. Non per essere razzisti, impossibile per un sinistroide come me, ma non capisco se ha più lui la faccia da toro o lei la faccia da vacca”

I signori, intanto, mettono 140 euro sulla cassa e Jack dà loro scontrino e resto.

 Carrello fuori dal comune. Mercoledì, primo pomeriggio, si avvicinano alla cassa semideserta di Jack presumibilmente un figlio e la madre: lei sulla settantina e lui sulla quarantina. Distinti ed eleganti, entrambi si avvicinano col carrello e lo svuotano. La donna va avanti, dice di separare lo scontrino con un subtotale ed indica una bottiglia di olio come spartispesa. Appena posata la bottiglia dell’olio… Gasp! Gulp! Acc! Il distinto signore toglie la sua spesa dal carrello: otto confezioni di condom da dodici della Akuel, per un totale parziale di 96 preservativi, nonché sei confezioni della Hatù da 12, per un totale, sempre parziale, di 72 ed un totale definitivo di 168 profilattici.

Jack: pensato - “La signora ha due fedi, è vedova e, anche non lo fosse, è troppo vecchia per certe cose. Il figlio ha un’aria da impiegato frustrato, senza anelli al dito, per cui al massimo fidanzato… ma è una trivella! Alla media di una botta al giorno, e considerando i mesi di trenta giorni, fanno cinque mesi e mezzo di scopate… wow, non male “el trapanador”. Oppure sono ottimista per lui, magari è uno spacciatore di preservativi, uno psicopatico insospettabile che compra qui e davanti alle scuole medie e superiori smercia a prezzi buoni. E poi, ma per diana, se trombi come un riccio, non comprare l’accessoristica quando sei con la mamma. Adesso voglio vedere se i cappucci se li paga o li sponsorizza la vecchia”

Jack: detto – “Ecco il suo scontrino… ehm… signora”

 

Anche la prima domenica del mese il target clienti non era affatto male.

A Mau era capitato un signore che voleva comprare un telefono cordless, ma ecco che zio Sigmund ci mette lo zampino e da “Psicopatologia della vita quotidiana” esce una chicca da Oscar!

Il signore, vestito da contadino con tanto di cappello in paglia e stivali “da funghi” verdi: “Posso chiedere a lei? Mi occorrerebbe uno di quei telefoni senza filo, che me lo possa portare anche nell’orto, insomma, come si chiamano, i condom… i condor…”

Mau: detto - “I cordless, signore. Venga, le mostro la vetrina”

Mau: pensato - “I condor? Ma da dove arrivi, dal nord america dei film? I telefoni condom? Quali sarebbero, quelli con l’astuccio in lattice e l’avviso di chiavata?”

 

E succedevano davvero cose assurde. Vecchiettini che acquistavano cinque radiosveglie alla volta o 25 contenitori per musicassette. Mamme infedeli accompagnate da mariti imprenditori che dovevano fare un pensierino al nipotino per la comunione: “Sì… dunque… allora, prendiamo quel cellulare, lo stereo e anche l’orologio, signore, grazie!”. Caspita! e per la laurea che compri, un elicottero? Per il matrimonio regali il 50% delle azioni Fiat? Ecco perché oggi i bambinetti cresciuti, dico quelli tra i quindici ed i venti anni, vestono come un incrocio tra Hulk Hogan, Boy George ed il chitarrista dei Metallica, rischiano di rimanere appiccicati durante baci o abbracci a causa dei loro piercing alle lingue o al collo o alle narici, mimetizzando il loro non lavarsi con centimetri quadrati della loro pelle oscurati dai tatuaggi più disparati. Ragazzetti che si dichiarano di sinistra solo perché in inverno mettono la kefia. Figli di papà che disdegnano le cravatte e fanno gli alternativi vestendo di marca. Ecco perché i valori della famiglia, delle religioni e della politica, degli affetti, del rispetto e della puntualità sono scomparsi. Perché se a dieci anni hai il cellulare, a quattordici il motorino e a diciotto la macchina, rischi, se non ti sei mai soffermato sui tramonti o le nascite di un piccolo o le morti di un anziano, di essere attirato dalle droghe, dai motori, dal sesso innaturale delle trans, dei gay e delle lesbiche o dal sesso a pagamento delle puttane. Ecco perché la luce degli occhi si opacizza, il cuore e l’animo si atrofizzano e si seccano come terra di campagna agostana.

Manzoni diceva che gli interessi uccidono gli affetti e, a distanza di lustri, non è cambiato niente o, se è cambiato, è solo peggiorato.

 

Che dire di chi arrivava all’ipermercato per comprare sette spazzolini da denti? E delle belle ragazze che, con fare ambiguo, portavano alla cassa nel carrello solo banane, cetrioli e zucchine, oltre al burro? O delle coppie di ragazzi, e non intendo una coppia di sposini ma parlo di due uomini, che riportavano scatole di profilattici al box informazioni perché difettose? Quando, come e perché ti sei accorto che erano difettosi?!

Oppure vogliamo aprire una parentesi sulla statistica per la quale il cliente arrivato alla cassa, al momento del pagamento, è distratto dallo squillo del cellulare? Cassa uno: suoneria di Goldrake! Cassa tre: discodance. Cassa sei: “La cavalcata delle Valchirie”. Cassa nove: inno della Lazio. Cassa sedici: “Laura non c’è”, ma Nek purtroppo sì. Insomma, il cliente sconcertato dalla sacra sindrome: quella dei cell, degli sms, delle faccine J, gli squilli e cose simili. Ecco che fine ha fatto anche la comunicazione che si basava sui toni di voci, sul guardarsi negli occhi, sulle parole ed i brividi che davano.

 

Una volta Mau chiamò alla “macchinetta infernale al tuo numero ci penso io” il numero 69, insomma il numero che più di ogni altro ha riferimenti erotici. Si presentò, per l’acquisto di una lavastoviglie, un omino forse di neppure un metro e cinquanta. Elegantissimo, ma con una cravatta non classica, bensì indiana. Aveva almeno sessantacinque anni. Sul tessuto nero lucido della sua giacca, all’altezza delle spalle, un mare di forfora. Due attimi dopo che Mau aveva chiamato il numero, lui si avvicinò dicendo: “Sessantanove? Eccomi, eccolo! Sa, è il mio numero il 69, lo adoro e adoro farlo, ma non con mia moglie, veda me e s’immaginerà lei! Dico, con la studentessa che vedrò pure stasera…”. Mau ebbe un conato di vomito… come se stesse vedendo un film porno, vide l’immagine di una camera buia, con odore d’incenso e due figure in penombra in quello che in termine tecnico è il sessantanove… un lui, grasso e sfatto nella muscolatura e nell’animo, ed una lei, una biondina neppure ventenne, straniera, messa lì dal racket della prostituzione, che per soffrire di meno prima di ogni appuntamento rollava e fumava una canna e beveva del whiskey.

Mau allungò la mano verso il pulsante ed il pollice fece scattare il numero settanta, la sua voce disse forte “settanta!”; poi ruotò la testa di quasi novanta gradi a cercare lo sguardo di un collega. Incrociò quello di Alberto e disse: “Albè, fai te il signore, vuole una lavastoviglie”.

 

Altri aneddoti?

Ok, ma siamo ai botti finali, e come a San Silvestro gli ultimi fuochi e botti sono i più luminosi e rumorosi.

 

In gastronomia, nelle cucine, nel retro dello spaziovendita, come capita nelle migliori famiglie, a volte entravano delle mosche, attirate dai secchi di spazzatura colmi di carta intrisa di sugo o sangue di carne morta gettata via. Allora, prima di impanare una fettina, se la mosca si fermava sul piano di lavoro… la fettina del fu vitello, pollo o tacchino era usata come i pensionati in estate usano il Corriere dello sport arrotolato! Splam! La mosca rimaneva lì, sul marmo bianco delle cucine, uccisa dalla fettina. Poi si impanava e si metteva a cuocere!

 

Oppure, se il cliente era già ad un buon punto dell’arteriosclerosi, arrivato alla cassa faceva la telecronaca della spesa. Jack passava i sughi, i succhi, poi la pasta e la frutta? E si sentiva, come le vecchie del sud in chiesa mentre snocciolano il rosario, una nenia cantilenante. Era il vecchietto che diceva: “Pesto Knorr, olive e capperi Buitoni, pera Zueg, pesca Del Monte, rigatoni e tortellini, un chilo di mele”. Mancavano gli olè, come se la voce non fosse appena scandita, ma fosse invece urlata a proclama come a dire: “Zoff! Gentile! Cabrini! Scirea!”…

 

Ma, con l’ultimo aneddoto, termina la vicenda dei nostri quattro amici e forse riusciamo perfino a lasciare una morale!

Durante i lavori di ristrutturazione, uno dei capireparto aveva esposto un cartello: “Vietato l’acceso”. I quattro amici si ritrovarono davanti agli stipetti a ridere. Vietato l’acceso? Vietato, sì! Infatti in certi posti, in certi cuori ed in certe vite, l’acceso è proprio vietato. Va bene solo lo spento!

Auguri ragazzi e in bocca al lupo!


SFOGO

 

 

Faccio le lavatrici, ma non stiro né cucio. Amo la vasca grande, in due dentro. Odio farmi la barba e sentirmi dire di farmela o sentirmi dire di fare cose che non voglio fare, tipo: “Metti quel maglione” o “Sposta quel pancale”. Amo il calcetto, ginocchio permettendo. Adoro fare l’amore e le coccole farle e riceverle, ma, come in tutte le mie cose, sono immodesto, pretenzioso e lunatico.

Cucino, lavo, ma non sono l’uomo elettricista, idraulico, tutto fare, che le donne sognano. Sono più di concetto che di manovalanza... Vesto bene, ma non firmato. Odio stilisti e moda, odio le cose che costano molto. Solo al pensiero che un anello del papa o tre vestiti di Valentino sfamerebbero l’Eritrea intera… Forse perché in casa c’è sempre stata molta crisi economica e poca fortuna condita da mille problemi... I miei ed io abbiamo avuto dei gran casini, ma tuttora siamo uniti.

Sono comunista vecchio stampo, ateo scientista, pro Baggio, poeta, pittore, psicologo. Odio la tv, se non per un po’ di sport, musica, film, programmi culturali o comici ed i Tg.

Non male il computer e la rete, la PS2 e tutto ciò che mi permetterà di godere della mia sindrome di Peter Pan e giocare anche a 89 anni.

Amo i dolci e la pizza  e “ir cinque e cinque, boia dé!”.

Odio Livorno e tendenzialmente i livornesi, ma forse l’italiano medio... Amo gli amici e commentare con loro i bei culi o le belle donne. Amo i baci, i bei seni. Faccio i piatti in lavastoviglie e stendo i panni, ma sono cocciuto. Voglio sempre aver ragione: testardo, porco, ma romantico, sensuale, erotico, passionale, simpatico o odioso, ex calciatore, magrissimo, sognatore, né realista, né pessimista, né ottimista, ibrido in tutto.

Ho paura della morte. Amo l’Irlanda, l’irish coffee, i giochi di ruolo e tutti gli altri in generale, “Il Signore degli anelli” e le serate ai pub, o al cine, o con le vhs, da soli o con gli amici. Amo l’amicizia, la libertà, la democrazia, la pulizia d’animo, l’equità, i fiori, le piante,  guardare vecchie foto. Sono geloso ma non lo sembro; amo che la mia lei lo sia, ma non deve soffocare se magari, appunto guardando vecchie foto, ci sono mie ex... Io, oggi, sono frutto di tutti i miei passati e a chi sto bene ora è grazie a questi.

Amo la musica, scrivere, dipingere, leggere, sedurre, ma non essere al centro dell’attenzione.

Mi piace molto il mistero intrigantemente sensuale della complicità, perciò mi piace osare e dato che c’è una sola vita, perché il paradiso e l’inferno non esistono, non esistendo Dio, che essendo perfetto esclude pure l’esistenza della perfezione… be’... allora osiamo!


ELABORAZIONE DI UN MIO PERIODO NON BELLO E DEL RICORDO DI UNA STORIA LETTA IN RETE

 

 

Un giorno le parti del corpo decisero di programmare una riunione per stabilire chi di loro fosse il capo. Il giorno seguente, una volta avvertite tutte le parti del corpo, si tenne la riunione.

“Il capo sono io” - disse la bocca - “perché se il corpo non mangia, voi non avete la forze per lavorare, camminare, divertirvi e quindi vivere”.

“No no, cara bocca” - dissero le mani - “il capo siamo noi, perché il cibo che tu deglutisci e con cui sfami tutti noi, è per merito nostro che lo sbucci, lo cuoci, lo tagli e lo porti sino a te per masticare”.

“Ah ah ah, ma non fateci ridere!” - dissero le gambe - “E come fareste voi, se noi fossimo paralizzate o attaccate a terra come alberi? Non vedreste il mondo, non andreste a scuola e non avreste una cultura, non andreste ai supermercati per comperare i cibi che le mani portano alla bocca”.

“Ma non vedete che il capo sono io?” - disse il cervello. “È tutto merito del ragionamento se noi adesso democraticamente discutiamo il da farsi e perciò è scontato che sia io il capo”.

Insomma, dopo tre ore e un quarto, tutte le parti del corpo avevano preso parola, tranne una, e non si era arrivati ancora ad un accordo.

“Scusate” - disse una voce timida - “so che sembrerò buffo e banale, ma per me è scontato: il capo sono io!”. Era la voce del buco del culo, ma non poté dire altro perché, a differenza degli altri, nessuno lo stette ad ascoltare.

La riunione non aveva portato a niente e le parti decisero di rimandare di una settimana il verdetto, settimana durante la quale tutti avrebbero riflettuto sull’accaduto e sul da farsi.

Ma fu una settimana terribile! Gambe e braccia si gonfiarono, la testa doleva, gli occhi lacrimavano dai dolori addominali, il cervello non capiva, la bocca deglutiva con disgusto.

“Ma che è successo?”, urlarono tutti in coro. “Chi è che ha boicottato?!”.

“Io non ho mai smesso di pensare!”, disse il cervello.

“E noi di camminare!”, dissero piedi e gambe.

“E noi di lavorare, mangiare e fare cose”, risposero braccia e mani.

“E noi…”. Gli occhi furono interrotti.

“Sono stato io a boicottare il mio ruolo!” - disse il buco del culo - “Non per cattiveria, ma per dimostrarvi chi è il capo. In sette giorni avete ottenuto solo coliche, tremori, dolori intercostali, emicranie, cefalee… non si può fare il capo se non si fa almeno lo stronzo una volta al giorno, e chi meglio di me allora può fare il capo?!”.

Le parti del corpo ammisero mestamente la silloge del buco del culo, il quale fu eletto capo… ma le mani portavano troppo cibo e troppo alcool alla bocca, le vene accusavano e si gonfiavano, la testa girava ed il pensiero impazziva, lo stomaco non funzionava ed il capo faceva lo stronzo troppe volte al giorno, così il corpo deperiva, era disidratato. Non ci furono più riunioni ed una notte il corpo morì tra le lenzuola piene di merda.

 

Morale: un buon capo deve, senza ipocrisia e preferenze e con molta professionalità, fare lo stronzo almeno una volta al giorno, ma se fare lo stronzo è la sua unica e primaria soddisfazione, che lo lega al godere di avere il potere, lavori lui in una scuola, in un’azienda, in una fabbrica, in un ufficio o in un negozio, riempirà di merda i colleghi ed il posto di lavoro, divenendo lui stesso una merda morta e senza valori.

INTERVISTA AL PESCE

 

 

Eravamo in fila da un giornalaio. Io stavo comprando un giornale sportivo: sapere i movimenti agostani del mercato di Serie A, per un giocatore di fantacalcio, è basilare. Si sono avvicinate due donnette ed hanno preso lo stesso giornale che la mia compagna stava sfogliando per capire se comprarlo o meno, per uccidere non tanto la noia del viaggio in treno, quanto il sonno.

Ho pensato ad una cosa drammatica: ci sono persone che si sentirebbero sole anche catapultate in uno stadio con ottantamila spettatori. Ancor più drammatico è che trovano compagnia tra le pagine di giornali con nomi tutti diversamente uguali: Gente, Oggi, Novella 2000! Ossia tra petti villosi, culi e tette forse siliconati, storie di matrimoni d’interesse e di funerali di serie a oppure di serie b.

In treno, durante il viaggio, abbracciando quello splendido morbido fiore che, dato il mondo che mi circonda, non sono ancora riuscito a capire come e dove l’ho colto, ho pensato a quanto è differente leggere, osservare, studiare oppure leggere la stessa cosa in treno o a casa.

Lei sfogliava il giornale incriminato, tra i rumori cigolanti di un vecchio diretto per Firenze, senza badare alla sua tenerezza ed alle sue curve o al mio modo di amarla, anche solo guardandola. Ed io sbirciavo. Alla fine ho notato che c’era solo una pagina interessante: una pubblicità non so di cosa che raffigurava una bella foto di un pesce che, con un dovuto fotomontaggio, aveva, a mo’ di intervista, un microfono puntato davanti alla bocca. Ho pensato che se i pesci parlassero davvero non ci prometterebbero certo un milione di posti di lavoro e non dichiarerebbero ad una bionda solo tette e labbra il loro amore per poi far fallire una società di calcio dietro cui, bene o male, si cela una storia, una cultura, un popolo. Ma, soprattutto, non sbaglierebbero i congiuntivi con i condizionali.

Ho chiesto a Marisa quanto costasse il giornale. “Un euro e settanta”, mi ha risposto, quasi distratta.

Domani voglio comprarlo io quello stesso giornale, da un giornalaio diverso. Chiederò il prezzo, darò tre monete: una da un euro, una da cinquanta centesimi e una da venti. Poi, con indifferenza, andrò alla pagina dell’“intervista al pesce” e la strapperò. La piegherò con cura in quattro e la metterò nella tasca della mia camicia. Poi me ne andrò, schifato, tra lo sguardo sbigottito dei clienti e del giornalaio stesso. Ossia, me ne andrò schifato tra sguardi sbigottiti della gente. Ossia farò quello che faccio ogni giorno.

 

Beato il pesce!


HAPPY DAYS

 

 

Mio fratello lavora in un ipermercato. Anche io lavoro in un ipermercato. Anche un caro amico in comune lavora in un ipermercato. Ciò nonostante non lavoriamo nello stesso ipermercato e neppure nella stessa città.

Prima dell’altra sera, credevo di essere sfortunato.

L’altra sera, dopo anni ed anni, ci siamo trovati davanti ad una birra, un dopocena, da soli, senza le rispettive mogli o compagne. Credevo d’essere sfortunato, alla stregua di chi, nato il 29 febbraio, festeggia il compleanno due volte ogni otto anni. Invece no! Credevo che lavorare al nord, o al sud o al centro di questo paese della nuova repubblica, dell’euro, del nuovo che avanza, dei conflitti di interesse, di chi dice di essere stato comunista e poi è lontano chilometri dal comportarsi democraticamente, fosse diverso. No. Sbagliavo. Non è importante il parallelo di Torino, di Firenze o di Messina. È l’Italia il problema. Anzi, no. Commetto un sacco di errori. L’Italia è una terra bellissima. Ami il mare? Nuota! Ami la montagna? Scia! Ami la pianura e la collina o il buon cibo e il buon vino? Bene, “Ce lo”, come dicevamo da bambini tenendo strette le figurine Panini. Qui ci sarebbe tutto, ma... Ci sono mille ma.

Mio fratello chiama il suo posto di lavoro “l’orrore”. Quando lo abbiamo raccontato a Stefano, il nostro amico bolognese che lavora a Messina, s’è messo a ridere. Io sono laureato in Psicologia. Mio fratello in Filosofia. Stefano in Scienze Politiche. E non sto adesso a narrarvi perché tre dottori siano tre ipercommessi. L’altra sera, in quel pub, sembravamo tre tedeschi di metà ottocento pronti a fondare un circolo intellettuale preromantico.

Meditavamo sull’emblematicità del concetto di “catene di negozi”. Gli schiavi hanno le catene. E meditavo su come non sono sfortunato io ad uccidere la statistica incontrando certi tipi di fornitori, o clienti, o capi reparto eccetera. È solo che di quei fornitori e clienti e colleghi eccetera, ce ne sono a iosa.

Guccini canta che quando meno ce lo aspetteremo, un altro Guevara ci apparirà. Se io non ci dovessi essere più e se con me dovesse essere scomparsa anche mia moglie, spero possa goderselo nostro figlio quel momento. Tanto per me sarà come esserci, con i suoi occhi. Perché avrà in sé i miei racconti, fatti suoi sulla sua pelle, col suo sudore e con il suo amore.

Credevo molte cose, prima dell’altra sera. Tornando a casa dopo la birra, mentre sapevo che mia moglie sarebbe stata lì sul divano, il mio amore-sottiletta tra coperta-panino e divano-panino, in dormiveglia, mi sono rivenute a mente mille cose: che mi sarebbe piaciuto perdere la verginità con mia moglie, ma che, se fosse successo, forse oggi mia moglie sarebbe un'altra donna; che avrei voluto non soffrire quando da piccolo licenziarono mio padre, ma che, se non lo avessero licenziato, oggi sarei più ipocrita, meno comunista e con valori meno forti. Ed ogni cosa che pensavo aveva due facce, come le medaglie dei proverbi, come i proverbi dei bicchieri mezzi pieni e mezzi vuoti. Poi, mentre distratto dai miei pensieri, la frizione mal premuta mi ha fatto tornare in me con lo stridere tipico della “marcia grattata”, ho avuto come la sensazione di essere stato, appena due minuti prima, il bambino che ero venticinque anni fa.

Un grosso unico televisore, pochi canali e colori non ancora decisi e vivaci. Metà pomeriggio, compitini delle elementari finiti, poltrone in pelle verde in un lungo corridoio. Odore di popcorn appena fatti da mia madre che conta i minuti perché torni suo marito, mio padre, e come sempre, da sempre, per sempre, baciarlo, sia quando esce che quando torna dal lavoro.

Immagini e sigle. Nitide. “Happy days”. Era metà settimana. Nei telegiornali c’erano Berlinguer e Spadolini, Antognoni e Paolo Rossi, a “Domenica In” c’erano Corrado eD i Nomadi.

Per le strade, la domenica mattina, c’erano padri in giacca e cravatta con delle paste dolci in vassoi di carta bianca con nastrini arricciolati; salivano sulle centoventisette e sulle a-centododici, di fianco le mogli, con delle lunghe gonne a righe psichedelicamente orizzontali, dietro i figli, quasi sempre due, con zazzere pettinate alla Sinatra e sul cruscotto i transistor per sentire le reti che alle diciotto e dieci Paolo Valenti ti faceva rivedere, subito, in fretta, senza pubblicità né movioloni, né vallette dalle tette enormi a sponsorizzare, tra un rigore ed un angolo, delle sopraciglia finte.

Sono arrivato a sotto casa, ho parcheggiato e son salito piano per le scale. Tre uomini, tre città, chilometri che non dividono, valori che uniscono. Ho messo la chiave nella toppa con cattiveria, come se avessi infilzato il petto di un nemico comune non a tre uomini tra i trenta ed i quaranta, ma comune a molti.

La mia adorata sottiletta era lì, dolce, passionale, morbida e assonnata. Sapeva che dopo il turno di lavoro sarei scappato al pub e mi ha chiesto se ero stanco. “Sì, oggi pomeriggio c’è stato l’inventario all’ipermercato. Ti salutano Max e Stefy”.

Già. Venticinque anni fa di iper e super c’erano i protagonisti dei cartoni animati, oggi i negozi. Venticinque anni fa gli ipermercati, nei pomeriggi autunnali, alle diciassette sarebbero stati semivuoti: le mamme italiane, che accanto al marito urlavano forza Italia senza sapere cosa avrebbe significato oggi, avrebbero aiutato i loro piccoli a fare i compiti, e dopo, se le tabelline fossero state ricordate bene, il premio sarebbero stati  i popcorn da gustare guardando “Happy days”.

No, che ingenuo che sono. Altro errore: non tutte le mamme facevano così. E adesso, seduto sul divano, accarezzando lei, so davvero che neppure i padri erano tutti così; che pure oggi, dopo venticinque anni, non tutti accarezzano così, una donna ed una moglie così, potendo scrivere un racconto così, su un amico così ed un fratello così.

Prima dell’altra sera credevo di essere sfortunato.

            Happy days!


I PICCINI, I PICCIONI E L’ATEO PRATICANTE

 

 

I piccini, io lo so perché lo sono stato anche io, non vorrebbero vestire come li vestono: tutti questi colori pastello, i fermacapelli fucsia per le treccine delle piccole. Accozzaglie di fantasie in pile o cotone, accozzaglie su accozzaglie. E se i genitori, specialmente le mamme, son di quelli che muoiono quasi di fame, ma è più forte di loro far finta di essere ricchissimi, allora le accozzaglie son tutte firmate e di marca.

Io, personalmente, non vesto, né ho vestito in passato, con cose alla moda o firmate… molti lo fanno.

Almeno per gli adulti spendere anche duecento euro per un paio di pantaloni, può voler dire utilizzarli per svariati inverni. Dico io: avete presente la rapidità di crescita dei piccolini? Oggi li vestite con un maglioncino che tra quattro settimane non andrà bene neppure se usato a mo’ di calzino! E allora se i genitori, specie le mamme, sono di quelli di cui sopra, la media è un maglioncino, un paio di pantaloncini e di scarpine ogni tre settimane.

Risultato (e ricordo che, per assurdo, una scarpa più è piccola e più costa, mentre io ho sempre creduto che il numero 40 costasse di più del 30!): spariscono dodicesima, tredicesima e quattordicesima da dicembre a gennaio.

 

E le passeggiate nelle piazze piene di piccioni, dove le mettete? I piccioni: sporchi, lenti, goffi, grigi di piume e di smog, ma, nonostante tutto, gettonatissimi dai piccoli…  siamo sicuri? Non è che è alla mamma ed al papà che piace spezzettare biscottini per attirare l’attenzione dei piccioni? Me lo chiedo perché, se ci fate caso, ai piccoli piace molto di più farli scappare, i piccioni, appena son tutti radunati intorno a quelle briciole: corrono  dentro al gruppo per farlo volare.

 

Io ricordo che mia madre mi metteva delle magliette di lycra strettissime al collo ed io non respiravo; ricordo che mio fratello odiava ancor più di me (e con questo ho detto tutto) il caldo ed il mare, che le domeniche estive presto iniziava a piangere mentre si facevano i preparativi per andare in spiaggia. Che cattiverie. Eppure i genitori, in quei momenti, credono fermamente di fare la cosa migliore per i loro piccoli. Io, i miei, non li cambierei con nessun altro, ma le loro cazzate le hanno fatte e le fanno tuttora, come le faccio io e tutto il resto del mondo.

 

Alcuni dicono che non mi metto in discussione, né ci metto le persone a me care. Io son certo del contrario: io metto in discussione me stesso ed i miei cari. Il problema è che ci metto pure tutti gli altri componenti del mondo e, sinceramente, è quasi oggettivo ed inopinabile che di amici come quei tre o quattro che ho, di mogli come quella che ho, di genitori e fratelli come quelli che ho, in giro non ce ne sono molti.

Forse è perché, invece, in giro ci sono molti che sposano non la mia filosofia, quella dell’essere, ma quella dell’avere. Io sono un pittore, poeta, magazziniere, laureato, amante del calcio. Altri, invece, hanno una BMW, altri gli addominali, altri la pelle abbronzata. Poi c’è anche chi ha addominali abbronzati sulla BMW… e per quelli non credo ci sia speranza, specie se penso che son gli stessi che finiscono col  guardare “Il Grande Fratello” e votare Silvio alle urne. Ma torniamo alle piazze coi piccioni e i piccoli.

Se due piccoli si incontrano, sentirete cose tipo: “Bubeeeeeeheghe babla ueoooooooo”, a cui l’altro risponde: “Hngheghe baaaaaaaaaaaaaapupuuuuuuuuuu”. Bene, per voi non si son detti nulla, né capiti, vero? Invece no! La verità è che lui ha preso in giro lei per le ignobili treccine fatte da mamma con farfalline fucsia e lei ha risposto che l’abbinamento pastello delle scarpine di lui è orrendo con il maglioncino ed i pantaloncini in pile!

Il dramma è, invece, se i grandi si rivolgono ai piccoli: “Ciciiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiii! Hai fameeeeeeeeeee? Buia? Vuoi nanneeeeeeeeeee? Cicicicicicici mioooooooooooooo!”. Al che il piccolo non risponde, ma pensa: “Ma mi prendi per cretino a fare ‘sti versi? Perché non pensi a togliermi questo cappellino rosso, che sembra  un cestino sporco di succo di fragole?”.

Per lo meno abbiamo la scusa dell’età che interferisce sul dialogo, ma quando il piccolino diviene un dodicenne brufoloso o la piccolina una tredicenne che deve combattere il menarca? Per assurdo, sebbene ora i quattro parlino la stessa lingua, ci si capisce ancora di meno, ammesso e non concesso che si provi a parlare. Papà è sempre impegnato, con l’ufficio oggi come coi campi decenni fa, e mamma, che allora era impegnata nelle pulizie e nel soddisfare il padre padrone nello stirargli le camicie e non salare troppo la pasta, oggi non può distrarsi dalla sua puntata di “Beautiful” o dalla cena imprenditoriale di lavoro per sole colleghe.

Allora ben venga la cacchetta dei piccioni in piazza, quando è cosi!

Una volta, mentre in una piazza, a pochi passi da me, vivevo la tipica scena dei piccioni coi piccoli, un babbo ed una mamma furono avvicinati da due testimoni di Geova. Differentemente da molte altre volte, accettarono la discussione in piena piazza. I quattro parlavano di fede ed uno dei due piccoli della giovane coppia cadde ed iniziò a piangere, ma i due giovani coniugi non se ne accorsero. Purtroppo, nessuno ci chiede se vogliamo o no venire al mondo, ma ci son tante pillole e tanti profilattici! E ormai che ci sono, al mondo, non mi va di uccidermi. Anche se in questo mondo non ci sto bene, non mi uccido, almeno per rispetto a chi voleva restarci e per colpa di un freno rotto ora non c’è più. Fare i genitori sarà pure difficile e la perfezione non sarà di questo mondo, ma se tutti facessimo più attenzione, meno rumore e parlassimo di più, forse in meno andrebbero in chiesa o vedrebbero “Beautiful” e in di più direbbero grazie, o scusa, o per favore, divenendo figli e padri migliori.

Quanto ai due testimoni di Geova di quel pomeriggio, non so se essere più contento di non avere ancora figli (ma ne sarò felicissimo quando decideremo di averne) o di essere un ateo… praticante.


COME UNA PAGINA DI DIARIO

 

 

Camminavo a Livorno, in una di quelle poche vie eleganti del centro, ad un orario in cui, davanti alle vetrine, passeggiano coppie che sembrano ricche. Camminavo tra scie di acuti profumi femminili e dopobarba penetranti; tra i rumori di tacchi a spillo, che scandivano i passi sul marmo sporco dei portici. Camminavo con le mani serrate nelle tasche della mia tuta viola. Ero fuori luogo, ma non era la prima volta. La mia barba incolta celava un sorriso soddisfatto, quasi beffardo. Avevo un passo primaverile, da bambino che lecca felice il suo gelato. Il pensiero, allora, mi è scappato, forse perché stavo andando dal dentista, e ti ho pensato.

Stavo camminando già da un bel po’ di tempo. Avevo lasciato alle spalle Piazza della Repubblica e stavo arrivando in Piazza Grande. I due portici correvano paralleli, frenetici quasi, interrotti soltanto da qualche arancione passaggio di autobus. Davanti a me, la prospettiva congiungeva i portici alle gru del porto, al mare. Il cielo non era limpidissimo, ma il sole, che stava tramontando e chiedeva spazio quasi a gomitate alle nubi, rendeva piacevole anche questa mia Livorno.

E il pensiero mi è scappato di nuovo e ti ho pensato. Forse perché una delle coppie spingeva con soddisfazione e dolcezza una carrozzina, o perché una signora, dal passo spedito ed elegante, si dirigeva con la sua ventiquattrore ed il suo abito marrone verso il Tribunale. Una commessa, sulla soglia del suo negozio, mi guardava: sembrava stupita. Forse si nota più di quanto io mi possa immaginare che in questi giorni sorrido apparentemente senza nessun perché. E invece il perché c’è. Mica “sto fuori”. Anzi, il perché è che, come dici tu, “sto fuori”! Ed era un sacco di tempo che non mi capitava. E allora il pensiero mi scappa, e allora rido, e allora ti penso.

Non lo so come andrà a finire... o ad iniziare. La realtà è che pensarti mi fa ridere, mi fa sorridere e mi fa stare bene. La realtà è che mi piace dire alle persone che stimo e che mi vogliono bene che esiste un sorriso, un collo sensualissimo, un dolcissimo sguardo color castagna, che sembrano avere un effetto strano su di me. Un effetto di cui, ormai, mettevo in dubbio l’esistenza. La realtà è che il nostro essere imbarazzati crea una dolce confusione e quel “rischio” di cui già ti ho accennato.

Ma ti ho anche già accennato che ho intenzione di non farci caso, a quel rischio, forse perché sono sicuro che avrei voglia di corteggiarti e coccolarti per un secolo, a partire dal giorno in cui tu mi dovessi far capire che sono entrato un po’ nella tua vita e tu nella mia.


L’AUTOBUS

 

 

Ore 7 e 27, una delle prime corse della mattina. L’autista era sempre lo stesso. L’autobus era sempre lo stesso, con i suoi sedili di pelle grigia e la pubblicità di un dentifricio su un fianco. Anche i volti un po’ assonnati erano, bene o male, sempre gli stessi. Per questo si conoscevano tutti, almeno di vista.

Arrivavano le 7 e 25, Mario girava la chiave e l’autobus tossiva, come un anziano accanito fumatore al suo risveglio.

Seduti ai sedili in fondo alla vettura c’erano Francesco e Michele, con il loro esame di maturità che si avvicinava; con i commenti sul calcio, il lunedì, e quelli sull’amata di Michele, Sandra, il martedì. Con i commenti sull’ennesima avventura di Francesco, il mercoledì e gli appunti nascosti nei fogli protocollo per il compito di matematica del giovedì. Ogni giorno con i loro zaini e con i loro occhi assonnati.

C’era Tamara, una bella ragazza russa, arrivata in Italia per cercare una fortuna che ancora non aveva trovato. Andava ogni mattina da un’anziana signora, che la stipendiava per qualche panno steso e stirato, per un po’ di compagnia e per qualche piatto da lavare. Aveva gli occhi belli, come il ghiaccio freddo della sua terra, tristi forse proprio perché non scorgevano ancora quella fortuna sperata.

C’era Luisa, una dolce vecchietta che andava a fare la spesa dalla parte opposta della città. Si era trasferita in quel quartiere da poco, ma per anni aveva vissuto proprio alla periferia opposta della città. E ogni mattina raggiungeva il suo fornaio di fiducia, il negozio di alimentari, la merceria. Poi passava a salutare le amiche con le quali giocava a tombola il sabato sera, in modo tale da arrivare all’orario per tornare a casa, non prima di esser passata a salutare i nipotini appena arrivati da scuola.

C’era Massimo, un ragazzotto che aveva smesso di studiare e che aveva trovato un posto in un’autofficina. Proprio non gli andava giù essere un meccanico e dover arrivare a lavoro in autobus: neppure un motorino malandato! Ma la famiglia era davvero povera e sfortunata: sua madre era molto malata e suo padre già da tempo non riusciva a trovare un’occupazione.

C’era Lanzi, un avvocato sulla quarantina che non aveva mai preso la patente. Alto, scuro di carnagione e dai capelli corvini. Elegante persino nel modo di tossire. Sempre rasato alla perfezione e profumato di after shave.

Quanti pezzi di vite stretti nei pochi metri quadrati del “9 delle 7 e 27”. Quanti pezzi di mondo, così diversi eppure così pronti a confondersi. Le buste della spesa di Luisa da una parte e la ventiquattro ore di Lanzi dall’altra. I sogni di Michele e le paure di Massimo.

Mario da qualche minuto aveva disattivato il freno a mano e inserito le marce e stava già arrivando alla prima fermata. Mario era stato assunto da un anno appena dall’Azienda Trasporti della piccola cittadina dove viveva. Poche erano le giornate in cui un turno e una vettura diversi lo separavano dal numero 9. Ormai si era affezionato alla vettura, al percorso, a quei volti, alcune volte tristi, altri sorridenti, alcune volte lucidi per i riflessi del sole, altri bagnati dalle gocce di pioggia. Lui guidava. E guidando guardava nel grande specchietto retrovisore. E vedeva quei volti. Si ricordava di quando Luisa fu scippata da un malandrino di periferia. Si ricordava di aver sentito malignare su Tamara: voci che non la vedevano impegnata a stirare i panni dell’anziana signora, ma che la vedevano stirarsi sui corpi dei clienti. Si ricordava di Michele e Giovanni chiedere a Lanzi informazioni su un compito di diritto. E si ricordava lo sguardo triste di Massimo nei giorni del ricovero di sua madre.

Mario stava aprendo le porte. Un’altra fermata. Era un ragazzone alto e simpatico Mario. Con quella divisa blu che non gli si addiceva per niente. Lui che “in borghese” vestiva con i suoi maglioni larghi; lui che si aggirava in cucina tra salse e fornelli; lui che leggeva e fumava il sigaro bevendo grappa. Lui che da un pezzo viveva da solo, che quasi non si ricordava cosa volesse dire amare o essere amato da una donna. Lui, che con tutti gli amici che aveva, riusciva a sentirsi solo anche in mezzo alla folla, o vicino ai suoi cari anche sulla vetta di un monte, a scrutare l’orizzonte in assoluta solitudine.

Apriva ancora le porte, Mario. Un’altra fermata. Gli sembravano anni di una vita, quelle fermate. Ogni fermata un compleanno. La partenza. Le fermate. Facce che salgono e scendono ad ogni fermata. Il percorso del suo 9. La vita. Il capolinea.

Solo che nella vita non suoni il campanello per scendere da un’emozione, per uscire o entrare nella vita di una persona. Mario che guidava. Che guidava e pensava ad un racconto zen o a una poesia di Neruda.

Mario che era arrivato alla fermata del municipio. Una fermata che abitualmente non era affollatissima. Salivano un paio di ragazzi e Pasquale, un ex partigiano accanito fumatore di pipa.

Ma da qualche giorno c’era una nuova presenza. Mario l’aveva notata subito, dalla  prima mattina. Anche perché fu lei a chiedergli dove doveva scendere per arrivare alla scuola materna. Era una nuova maestra, arrivata da poco. Il giorno che chiese l’informazione a Mario, aveva un foulard color crema, che tentava di coprire uno splendido collo lungo, chiaro e sensuale. Aveva un completo marrone, giacca e pantaloni, che riprendevano il colore di sottobosco dei suoi capelli. Il giorno che chiese se il martedì successivo ci sarebbe stato lo sciopero dei bus, Mario le notò il naso, lungo ma piacevole, quasi intelligente e pronto a far nascere delle piccole fossette ai lati in caso di sorriso.

Il sorriso. Quello Mario lo notò la prima volta che lei salì sul 9. Anzi, lo notò mentre la fida vettura si avvicinava alla fermata, ancor prima che lei salisse il primo gradino con le sue gambe lunghe ed esili. E lui capì di invidiare quel foulard. Da subito.

Dallo specchietto retrovisore, che ormai era la sua sfera di cristallo, aveva però notato che non era l’unico ad essersi accorto di lei. Infatti, così come qualche mese prima era successo con Tamara, Lanzi aveva tentato l’approccio. Era così attento al suo specchietto, Mario, per vedere come reagiva lei, che passò con il rosso, tra le imprecazioni di Pasquale e gli “Oh Signore!” di Luisa. Non capiva se era invidia o chissà che, ma non lo sopportava, Lanzi. E la cosa che temeva di più, non nel momento della conversazione che stava spiando dallo specchietto, ma da quando la vide avvolta nel suo foulard, era che a lei potessero piacere proprio i tipi alla Lanzi. L’avvocato con cellulare e ventiquattrore, con l’appartamentino al mare per i weekend ed il sorriso idiota da vendere a Luisa o a Massimo, senza però capire il dolore e la saggezza che portano la vecchiaia e le disgrazie. L’avvocato che trascorre le vacanze all’estero, destinazione grande albergo, e che in spiaggia allontana i ragazzi di colore che vendono gli accendini a mille lire. Quanto aveva paura che lei fosse così. Che anche lei fosse così, come alcune di quelle che aveva ospitato nel cuore e a casa sua, tra i fumi di sigaro e di cucina. Ma lei non dette spago all’avvocato. E Massimo, che era lì ad un passo, strizzò l’occhio a Mario dallo specchietto e poi suonò per scendere alla fermata successiva, vicino all’autofficina.

La mattina successiva, mentre Massimo scendeva , una signora con un passeggino chiese aiuto per salire. Lanzi non mosse un dito. Michele e Francesco si vergognarono, forse imbarazzati dalla bellezza della giovane madre. Fu lei, allora, a porgere a Luisa il suo giubbotto di pelle e la borsetta nera, per aiutare la giovane madre a salire. Il bambino era affogato da un cappellino e una sciarpina rossa e blu, ma quella mattina faceva molto freddo e forse era per questo che piangeva così forte, come a voler avvertire il mondo che c’era anche lui. Alla madre caddero dei biscottini ed una confezione di salviette. Si accingeva a recuperarle prima che la partenza di Massimo potesse far rotolare le salviette fino ai sedili in fondo, quando lei, al posto di riprendere le sue cose dalle anziane braccia di Luisa, chiese alla madre di poter prendere in braccio il bambino. Mario osservava la scena dal suo specchio-sfera di cristallo. La madre non aveva ancora raccolto gli oggetti caduti che già il bambino si era calmato ed era al centro dell’attenzione di tutta la vettura, escluso Lanzi. “Signorina, le sue braccia hanno un effetto assai più immediato di qualsiasi ninna nanna!”, esclamò la madre del paffuto neonato. E mentre Mario pensava all’ipotesi di scoppiare anche lui a piangere per farsi coccolare, lei sorrise e guardando lo specchietto retrovisore disse: “Il merito non è delle mie braccia, signora. E’ la guida di Mario che fa vibrare questo famoso numero 9 come una culla”. Mario credeva di aver sognato tutto, e invece era tutto vero. Pasquale guardò Lanzi come si guarda una merda in terra, per assicurarsi di non pestarla. Tamara, Michele e Giovanni si guadarono e si sorrisero compiaciuti. Lei adagiò il corpicino nuovamente tra le braccia della madre e Luisa le porse la borsetta ed il giubbotto di pelle.

Mario rivide in un attimo tutti i volti insignificanti delle ragazze che aveva avuto e baciato. Poi si lasciò inebriare dal profumo che i suoi capelli, ogni mattina, lasciavano sulla vettura, fino a qualche fermata dopo la scuola materna. Rivide il foulard del primo giorno. Le sue gonne e le sue gambe. I suoi occhi brillanti che lo guardavano dallo specchietto. I suoi completi marroni ed i suoi maglioncini attillati. Le sue mani affusolate, le sue dita esili, come lunghe foglie di felce. Si sentì di botto pauroso. Metallico. Secco.

Mario frenò. Pasquale cadde a terra e con lui un volume de “Il Capitale” di Marx. Lanzi lasciò cadere a terra la valigetta, che si aprì spargendo documenti a destra e a sinistra. Gli zaini dei due liceali rotolarono fino alle gambe gonfie di Luisa. Tamara cercò, riuscendoci, di sorreggere la madre ed il bambino. Lei cadde e battè violentemente a terra. Mario vide un casco volare e poi sentì un lungo rumore.

Un motorino aveva compiuto una mossa azzardata. C’era stata una collisione con la grande vettura arancione. Stavolta Mario e la sua dolce distrazione non c’entravano nulla. Non c’era nessun semaforo rosso a cui doversi fermare. Il nove, ormai, tra il trambusto generale, era fermo. Mario aprì le porte e scese subito. Non aveva capito chi fosse ferito o meno tra i passeggeri, ma quel casco che aveva visto volare, invece, lo aveva scosso. Il motorino era praticamente distrutto. In un attimo, chi poté scese dalla vettura ed in un attimo fu il caos. Sul motorino c’erano due persone. Francesco rimase paralizzato. Riconobbe prima il motorino rosso di suo fratello, poi, nonostante il sangue, riconobbe suo fratello. Rimase ancor più paralizzato Michele, quando vide i jeans strappati e sanguinanti di Sandra, la sua ragazza, che, non avendolo ancora visto, chiese preoccupata al fratello di Francesco: “Amore, ti sei fatto male?”. Mario non era un ficcanaso, ma era un ottimo osservatore ed ascoltatore e sapeva vita, morte e miracoli dei suoi passeggeri: capì subito che la situazione era assai spiacevole. La madre era scesa, impaurita ma illesa, col suo bambino stretto al petto. Anche lui non aveva neppure un graffio, ma adesso strillava ancor più di prima. “Dobbiamo chiamare delle ambulanze: oltre a questi due ragazzi in motorino, anche un anziano ed una giovane che sono sull’autobus si sono feriti”, disse un passante che si era affacciato sulla vettura, incuriosito dall’incidente.

Soltanto in quel momento, mentre anche altri passanti cercavano di dividere un incazzatissimo Michele dal fratello di Francesco, che era paralizzato a vedere la scena, Mario si accorse di aver sbattuto anche lui sul volante e di far sangue dalla bocca. E si accorse di esser preoccupato per lei. Corse sulla vettura. Luisa stava bene, ma piangeva e singhiozzando ripeteva il nome di Dio come se si fosse inceppata. Pasquale bestemmiava, ma si era rialzato. Aveva un bernoccolo, ma le bestemmie più sostanziose le sfornava perché si era sciupata la copertina di pelle marrone del volume de “Il Capitale”.

Lei, invece, era ancora a terra e faceva molto sangue da un’arcata sopraccigliare. “Ti sei fatta molto male?”. “Abbastanza. Ma non avevi una guida leggera come una ninna nanna?”. “Non dipende da me, credimi. Temo che Michele sia l’unico dei passeggeri ad avere due bernoccoli senza aver picchiato la testa”. “Che vuoi dire?”. Intanto Mario prese un fazzoletto, glielo porse e l’aiutò a rialzarsi. “Posso spiegartelo a cena una di queste sere? Cucino molto bene.” Finalmente aveva trovato il coraggio. Pasquale e Luisa stavano scendendo e le sirene erano tanto forti da far capire che erano giunti sia le ambulanze che i carabinieri. “Cucini bene come sai evitare bene i motorini? Ehi, ma fai sangue anche tu, qui, dalla bocca”. Lei gli appoggiò un dito, esile come una foglia di felce, sul labbro inferiore, quello che sanguinava. “E tu pensi di cullarmi...”, Mario le baciò il polpastrello, “...di cullarmi così come culli i bambini? Signorina...?”. “...Elena, Mario. Mi chiamo Elena. E visto che tu sai vita, morte e miracoli dei tuoi passeggeri, potresti anche far sapere qualcosa di te, al posto che costringermi a fare interrogatori a destra e a manca!”. “Ma come... io...”. “Tu sei il conducente e lì c’è scritto che non si parla al conducente. E visto che Lanzi è ancora in zona, forse è meglio rispettare le leggi. Smetto di parlarti!”.

Mentre i carabinieri avevano fermato Luca, il fratello di Francesco, e Michele, che ancora imprecava contro Sandra, che piangeva a dirotto, un’ambulanza era già partita per l’ospedale con Pasquale a bordo. Un infermiere della seconda ambulanza stava per salire sul 9 per soccorrere eventuali altri feriti. “Sopra stanno tutti bene, giovanotto”, gli disse Luisa, afferrandolo per un braccio con una forza non da anziana signora.

In effetti sul mitico 9 stavano davvero bene. Elena aveva obbedito al cartello ed aveva interrotto la conversazione con il conducente. Erano seduti l’uno davanti all’altro, su quei sedili posti di fronte: lei lo abbracciava, serrando le mani dietro il collo di lui, che a sua volta le accarezzava i capelli con la mano sinistra, mentre con il pollice della destra le solleticava il collo da sotto il foulard. Si baciavano teneramente. Si baciavano, mentre una scossa Luisa iniziava il suo giro per il suo vecchio quartiere. Si baciavano, mentre Lanzi iniziava un’altra giornata tra lavoro e sguardi languidi, dopo aver recuperato documenti e ventiquattrore. Si baciavano, mentre Francesco sperava di non rovinare l’amicizia con Michele. Mentre una storia stava finendo, un’altra stava iniziando.

Proprio come il numero 9, la vita. Un lungo percorso con un capolinea. Ed un tragitto, dove salgono e scendono un sacco di volti e di profumi, di amori e tradimenti, di gioie e di dolori.

Mentre succedeva tutto questo Mario e Elena si stavano innamorando, dopo molto tempo che non succedeva a nessuno dei due.


MONETA

 

 

Mi sentivo come potrebbe sentirsi una moneta da cinquanta lire, di quelle nuove, piccole piccole, al cospetto di una banconota da mille, modello vecchio, col buon Giuseppe Verdi che ti guarda col suo sguardo da “Va’ pensiero”. Mi sentivo un po’ come uno che suda e suda ancora, seduto sul sellino di  una cyclette, uno che pedala e pedala e invece sta sempre fermo. Mi sentivo come uno che mette insieme delle parole per avere un’idea ed iniziare un racconto.

Forse mi sentivo così perché ero uno che metteva insieme delle parole, per avere un’idea ed iniziare un racconto. Ed un foglio bianco, adesso, mi faceva leggere l’inconcludenza della mia ultima ora di lavoro: dita che battono sul tavolo.

Due donne alla stazione si scontrano per sbaglio e, parlando, scoprono che erano bambine insieme; più episodi di uno stesso personaggio; due protagonisti di due canzoni che si incontrano… Ma che belle cazzate!

Stavo andando al mercatino delle parole usate e, invece, avevo  un sacco di cose da dire al mondo. E infatti. Sì, ormai avevo deciso che mi sarei laureato in Psicologia, ma il mio mestiere doveva essere quello di scrivere. Ne avevo, ne avevo avute e ne avrei avute ancora molte di cose da dire e raccontare. E poi avevo sempre avuto l’idea che se tutti al mondo avessero scritto e tutti avessero letto gli scritti di tutti, avremmo arricchito le conoscenze. Così, noncurante anche dell’ultima bancarella delle parole usate, che ormai era già qualche metro dietro le mie spalle, sgattaiolai nella prima strada a destra, quella che forse avrebbe portato ai vostri cuori.


CAZZATE

 

 

Se ne fanno di cazzate nella vita! I siti delle donnine nude su internet con gli amici e, con loro, anche i rutti, le pallonate alle automobili in sosta. Gli unoquattroquattro, le bruce a scuola.

Tutti dicono che poi si cresce… Io penso che più cresci ed invecchi e più le cazzate son grosse. Perché, in fondo, alla fine trovi lavoro e da un momento all’altro ti trovi dei soldi in tasca e le cazzate possono anche aumentare.

Puoi mandare in quel posto il capo ufficio e ti ritrovi con famiglia, ma senza lavoro. E tua moglie che ti dice, giustamente: “Il tuo solito vizio del cazzo, proprio non ti riesce stare zitto!”. E tu che rispondi? No, non mi riesce?

Oppure, continui a lavorare e, con qualche straordinario, ci paghi una svedese, che solo di gambe è lunga come te.

Eppure, anche se di cazzate se ne fanno tante, se hai il viso buono, già l’ostetrica se ne accorge e per tutta la vita, anche se di cazzate ne fai, sei te a prenderlo lì, proprio vicino al cavallo dei pantaloni, perché cattivo o stronzo non ci sei nato e non ci morirai.


LEGGERE O SCRIVERE

 

 

Ero a letto, volevo leggere. Dopo tre righe, invece, mi sono messo a scrivere. Capita spesso.

Un paio di giorni fa sono entrato con un amico in una profumeria. Era la prima volta che entravo, anche se spesso mi era capitato di passarci davanti. Abitualmente, con quel mio solito passo spedito, mi soffermavo sulla vetrina e sul profumo che usciva dal negozio, ma ero sempre distratto dal biondo sorriso della commessa che intravedevo tra un Mennen ed un Haven. Invece, un paio di giorni fa sono entrato con un amico. Ho scoperto che il Mennen e l’Haven nascondono bene non solo i cattivi odori.

La bionda ci è venuta incontro con la faccia idiota. Si vedeva che era idiota, sebbene camaleonticamente confusa con quegli onesti tre chili di fondotinta spalmati sulle guance, versione calce a presa rapida. Il mio amico chiede, lei risponde e tenta di vendere un’altra cosa rispetto a quella che gli era stata chiesta. Siamo usciti. Io ed il mio amico ci siamo divisi.

Sono andato in agenzia per fare il biglietto del treno. Davanti a me c’era una ragazza, carina, avrà avuto una ventina d’anni. Chiedeva se si poteva annullare la prenotazione per un volo il 28 dicembre, destinazione Madrid. Aveva gli occhi lucidi e dalla conversazione ho capito che era in confidenza con il tipo dell’agenzia. Il ragazzo l’aveva lasciata ed il viaggio era sfumato. Perderà il venti per cento della prenotazione, ma ora come ora non penso sia quella la perdita che gli fa gli occhi lucidi.

Mi passa per la testa una cosa. E se da un momento all’altro, lei col suo naso all’insù, alla francese, si asciugasse le lacrime che restano attaccate al bianco degli occhi e non vogliono finir di scendere e chiedesse: “Un biglietto… fammi un biglietto per dove vuoi tu, mandami dove vuoi, tanto dopo che lui mi ha mandato al diavolo, adesso posso andare ovunque! Mandami dove vuoi. Tu fammi un biglietto ed io parto!”.

Cazzo! Le stringerei la mano. Invece, poverina, è qui davanti a me, delusa ed incazzata.

Mi ricordo che a matematica sono sempre stato un disastro, ma i disastri migliori ero solito farli con le equazioni. L’errore che più mi faceva bestemmiare era quello che nasceva sbagliando il segno al primo passaggio. Sbagli un segno all'inizio e l'equazione non torna. Metti un meno al posto di un più, l’equazione dovrebbe tornare +8 e invece ti torna –1/2. E così, cara la mia ventenne delusa, dal nasino alla francese, magari a matematica tre non l’hai mai preso ed io invece sì, però non hai mai fatto caso che l’amore è proprio come svolgere un’equazione. Se sbagli segno è la fine, il risultato non è quello che dice il libro. Dunque, se proprio si deve sbagliare il segno, bene sbagliarlo all’inizio, così quando ricontrolli i passaggi lo trovi subito l’errore e perdi meno tempo. Ed eviti anche, a pochi giorni dal Natale, di andare a disdire la prenotazione di un volo per due per Madrid.

Ora spengo la luce.

Buonanotte amico. Buonanotte bionda dalla faccia spalmata. Buonanotte nasino alla francese. Dammi retta, non ci pensare, altrimenti finisce che vai a letto e al posto di leggere, ti metti a scrivere anche te.


SCAZZATO

 

 

Io lo so che non dovrei, ma una bestemmia mi ha fatto muovere le labbra tagliate dal freddo. Infatti ho freddo, anche con il mio cappotto marrone e la mia sciarpa amaranto. Ho freddo dentro.

Roma si rifà il trucco, si tira a lucido e ci riesce sempre bene.

Cammino scazzato a fianco di un amico, forse più scazzato di me. Percorriamo una strada del centr,o pervasa di fantasia e colori. Tu, per quanto ne so io, potresti anche percorrere la strada parallela a questa, magari in senso opposto al nostro. Magari con un amica. O, magari, con un bel tizio alto e muscoloso, con il Rolex al polso. Questa, magari, è una cazzata, lo so, ma, anche se non ne ho il diritto, per la prima volta mi scopro geloso marcio.

Le commesse dietro le vetrine luminose impacchettano regali. Io vorrei poter entrare per comprare il regalino per il Santo Natale alla mia dolce metà. Invece, Santo una sega! Vorrei regalare qualcosa alla mia donna. Una donna semplice, ma meravigliosa, col naso più affascinante che abbia mai visto.

Aumenta il mio essere scazzato. Il mio amico, probabilmente, pensa a qualcuno che, come te fai con me, non lo pensa abbastanza. Gli scappa una bestemmia anche a lui. Una bestemmia che raggiunge la mia. Infatti eccole lì, mano nella mano, che vanno a rimbalzare tra la padella del chioschetto con le caldarroste e la vetrina col presepe da centotrentamila lire.


VASCA

 

 

Quando con le prime comitive di amici ed amiche iniziavamo a metterci d’accordo per uscire, era sempre domenica. Era solo domenica!

Erano domeniche tutte uguali, ma sembrava di andare a fare chissà che cosa. Invece andavamo al cinema. Perché erano il cinema, la “vasca” in centro o lo stadio le uniche mete a cui potevamo ambire. Mete a cui poteva ambire uno sparuto gruppetto di pargoli lentigginosi dai capelli a spazzolino da denti e di pargole dai seni ancora acerbi. E quando qualcuno di questo gruppetto così ben assortito, al cinema, si commuoveva, quasi mi arrabbiavo. E, forse non il solo, arrossivo nel buio della sala se i protagonisti del film si baciavano ed avevo accanto una delle mie prime cotte.

Oggi le cotte sono diventate storie o avventure, non divento rosso nel buio della sala e neppure davanti agli occhi di colei che mi fa impazzire. Però tremo dentro, come una foglia. Balbetto mentalmente e spesso passo per ciò che non sono: uno che ci prova, se non con tutte, con molte.

Un’altra cosa è cambiata: come mi arrabbio ancora con chi si commuove al cinema, così mi arrabbio anche con me stesso, perché pure io, sebbene consapevole della finzione cinematografica, mi commuovo con un niente. Anzi, spesso ormai mi commuovo anche sentendo musica o leggendo un libro. E anche se al buio non arrossisco più, capita che mi commuova per la proprietaria degli occhi che mi sono davanti.

Forse perché il tempo passa e cambia le cose. Forse perché i capelli non sembrano più spazzolini da denti e quei seni sono maturati.


FEMMINA

 

 

E se fossi nato femmina? E se fossi nato femmina e avessi avuto una sorella e non un fratello? E se fossi stato figlio o figlia unica? O primogenito?

Se avessi interrotto gli studi ed avessi iniziato a lavorare a diciotto anni? Se avessi fatto prima l’amore o non lo avessi ancora conosciuto?

Qualcuno, non mi ricordo chi sia stato il primo, forse mio padre, ma ultimamente lo sento dire spesso e da molti, è solito dire: “Se mia nonna aveva le ruote era un carretto”, oppure “Se mio nonno aveva sei palle era un flipper”.

E’ vero, con i se non si fa la storia. E’ anche vero che i se hanno un fascino tutto loro: non sono belli, sono affascinanti, misteriosi.

Se fossi stato una ragazza avrei fatto impazzire decine di uomini, illudendoli tutti e concedendomi a pochi. Se avessi avuto una sorella, come fratello sarei stato gelosissimo, perché so che cosa farei ad una bella ragazza; come sorella avrei capito la complicità un po’ oca di quelle creature meravigliose che sono le donne. Se fossi stato primogenito sarei  stato a volte molto stronzo ed altre troppo protettivo. Se avessi interrotto gli studi… non avrei conosciuto Roma e con lei l’unico vero grande amore della mia vita. E se non avessi ancora fatto l’amore, non saprei cosa potrei perdermi.

Il tutto anche se mio nonno aveva solo due palle e non era un flipper.

 


ATTESA

 

 

Ero seduto su quella scomoda sedia, in quella sala d’attesa anonima. Non mi ricordo neanche dove realmente fossi. Non mi ricordo, a dire il vero, neppure che anno fosse e perché io fossi lì, proprio lì, in quel preciso momento.

Un cliente era appena uscito e si era avviato verso le scale. Un altro era entrato nello studio. Ed io rimanevo solo in quella sala d’attesa. Le sedie erano di plastica marrone. La vernice color crema delle pareti iniziava a scollarsi, lasciando intravedere le vecchie pennellate precedenti. La porta dello studio, invece, era verde, verde bottiglia. Poi il corridoio che andava verso le scale. E accanto alle scale… l’ascensore.

L’ascensore si apriva e chiudeva ogni tanto, con quelle sue porte scorrevoli grigio-metallo. Quando si aprivano, lasciavano intravedere lo specchio. Così, quando si aprivano, mi vedevo.

L’ascensore si apriva, ma in realtà nessuno lo chiamava ad un piano diverso da quello. Eppure, ogni volta che si apriva, usciva un personaggio diverso, che non entrava nel corridoio con le sedie marroni.

Si era aperta una prima volta l’ascensore ed era uscita una bella signora sui quaranta anni, con le labbra morbidamente truccate, dei lunghi capelli ricci e biondi ed un’eleganza indescrivibile. Il suo corpo riflesso sullo specchio, all’apertura delle porte, spostandosi, permetteva ai miei occhi di guardarmi nello specchio stesso… ed ero un bambino. Poi era uscita un’adolescente, con i suoi jeans strappati ed il suo zaino pieno di segreti e di ricordi, ed i miei occhi mi hanno visto… ero un ragazzo. Poi è uscita una bambina, con le lentiggini ed i capelli rossi. Aveva una bambola in mano. Prima che le porte si richiudessero, i miei occhi hanno visto nello specchio un vecchio. Poi, per molto tempo, le porte non si sono più aperte.

L’ultima volta che le ho viste spalancarsi, non è uscito nessuno e non ho visto nessuna immagine nello specchio…

Non c’ero più.


MURALES

 

 

Era l’ultimo giorno di viaggio. Il gruppetto di giovani turisti aveva deciso, prima di dirigersi all’imbarco dei traghetti, di visitare Orgosolo, un paese famoso per i numerosissimi e caratteristici murales.

La stanchezza ed il caldo si facevano sentire. Eppure le due auto, curva dopo curva, andavano spedite verso quello che sarebbe stato il momento forse più emozionante di quella permanenza nella terra del mare e dei nuraghe.

Parcheggiate le auto, le otto figure sudate ed abbronzate sgusciavano tra vicoli più o meno stretti, quasi incantate dai colori e dalle forme di disegni davvero formidabili. Uno di loro stava per mordere voracemente una lucida e invitante mela rossa, quando…

“Buon appetito”. Non era la voce di un personaggio dei murales, anche se fu la prima cosa a cui pensarono i ragazzi. Era la voce dialettale di un simpatico vecchietto, affacciato alla finestra di un pianterreno.

“Grazie”, rispose Dario. “Posso offrirvi un bicchiere di vino?”, esclamò subito Natale.

“…be’, siamo otto…”. Ma Natale aveva già aperto il portone.

Dario, Sebastiano, Giorgia, Massimiliano, Francesca, Maurizio, Alessandro e Claudia, con aria felice e sorpresa, entrarono in un accoglientissimo ingresso, che portava ad un’altrettanto accogliente sala, per arrivare alla quale si poteva apprezzare anche il viola elegante del bagno e lo statico grigio granitico delle scale che portavano al piano di sopra.

Natale era tutto vestito di verde: pantaloni e maglione. In casa faceva freddo, rispetto al caldo afoso della giornata, sembrava quasi che la porta della casa di Natale avesse aperto un altro mondo, con un altro clima. Il simpatico vecchietto aveva baffi grigio rossastri e capelli bianchi; un cappello marrone ed un canovaccio chiaro sulla spalla.

Mentre Natale preparava un vassoio con otto bicchieri, venivano effettuate le presentazioni di rito. Ma c’era qualcosa di magico, fantastico, nuovo. I ragazzi riconoscevano, nel colore degli occhi del padrone di casa, il verde dell’acqua del mare sardo ed il marrone del sottobosco. Riconoscevano, in quello che poteva essere loro nonno, lo stesso gusto schietto, puro e pastoso del vino che ormai stavano bevendo.

C’erano immagini di cale, gole e guglie nei quadri appesi alle pareti della bella sala. Natale aveva, ai lati degli occhi, rughe che sembravano le crepe della siccità isolana. Aveva mani con vene tortuose come le strade percorse dalle due auto dei ragazzi. Il suo dolce sorriso, sovrastato da gote accese come i tramonti immortalati dalle macchine fotografiche del gruppo, faceva intravedere denti che ricordavano le guglie della costa. E la sua voce spostava i pensieri dei ragazzi, proprio come l’onnipresente vento sardo faceva con le foglie degli alberi. Le mani di Natale terminavano proprio con delle dita che sembravano rami di albero. Dita forti, lavoratrici, con unghie che nascondevano un po’ di terra. Terra sarda, che l’animo di Natale, invece, non nascondeva affatto.

La conversazione era semplice, assolutamente non impegnativa, eppure la stanza era pervasa dall’odore di gioia e serenità che nascevano dalla condivisione di quel momento.

Suonarono alla porta. Imitando il suono del campanello, Natale si avviò verso la porta. Era una vicina di casa, Costantina. I suoi occhi corvini risaltavano sul bianco dei capelli. Vestiva una maglia verde ed una lunga gonna marrone. Natale parlò un po’ di lei ai suoi ospiti, che furono invitati a bere un altro bicchiere di vino, questa volta a casa della donna. Spostandosi da una casa all’altra, transitando per un breve tratto su una strada del paese, la comitiva notava ancora come nelle case ci fosse un clima assai più fresco.

Anche la casa di Costantina era molto bella ed anche qui era la sala ad accogliere gli otto amici. Alcuni di loro si sedettero su sedie tanto piccole da ricordare quelle dei sette nani, dei folletti delle fiabe. L’atmosfera continuava ad essere quasi irreale.

“Questo è un sogno, è meraviglioso. Questi sì che sono personaggi!”, sussurrò Maurizio a Dario e Claudia.

“Che bella donna, questa nella foto. E’ sua figlia, Costantina?”, chiese Massimiliano. “No, è mia nipote… E’ stata uccisa tre anni fa dal marito. Le ha sparato”.

Il gruppo di amici si guardò imbarazzato. Massimiliano tirò su le spalle guardando gli altri, quasi a dire: “Come potevo sapere…”.

Il tempo piacevole passa sempre veloce. Era tardi e le due auto dovevano ripartire verso l’imbarco. I ragazzi salutarono e ricevettero affettuosi abbracci di arrivederci.

“Torneremo”, giurarono i ragazzi in coro. “Se non saremo morti, saremo qui”, fu la risposta di Costantina. “Ci sarete sicuramente”, rispose Giorgia per tutti. “E se non ci saremo, dite a chi ci sarà che avete conosciuto Natale, che avete bevuto il suo vino. Natale, quello raffigurato nel murales laggiù, in fondo alla strada”. La risposta di Natale colpì molto Maurizio.

La comitiva, sgattaiolando nei vicoli come fanno i gatti, fotografò qualche murales e si soffermò a lungo su quello raffigurante il vecchietto.

Maurizio era eccitato, scriveva, parlava, pensava, toccava Dario in continuazione, continuando a ripetere: “E’ fantastico, micidiale, meraviglioso!”.

 

 

Io non ero con loro, ma Maurizio lo conosco bene ed abbiamo parlato molto di questa avventura che ha vissuto con i suoi amici.

Giura di essere arrivato ad Orgosolo e di aver visto un paese abbandonato, deserto. Dice che, facendo troppo rumore, la compagnia ha svegliato i personaggi dei murales. Loro, al posto di arrabbiarsi, hanno subito notato la purezza e la voglia di emozioni degli otto amici. Per questo il paese ha incaricato Natale, il personaggio più rappresentativo, di affacciarsi dal proprio disegno per invitare nelle scene dipinte gli otto amici. E loro sono entrati.

Quel mondo era diverso, lontano. Per questo faceva freddo. Gli animi di Costantina e Natale erano incontaminati e si sono accorti di quanta troppa quotidiana contaminata civiltà possa esserci in una persona. Per questo hanno insegnato un po’ di vita al gruppo di amici.

Maurizio mi dice di non essere pazzo, dice che era davvero un altro mondo, lo si notava anche dalla meravigliosa incomprensibilità delle parole che i due vecchietti si scambiavano. Lo si notava dal fatto che faceva freddo ed era il freddo del muro dei murales. I due vecchietti avevano preso per mano i ragazzi portandoli nei murales stessi. Nella storia.

Ma anche in quel mondo non tutto era perfetto. Maurizio, infatti, mi ha confidato di essere convinto che la nipote di Costantina è stata uccisa da un murales dipinto male.               


ZOO

 

 

C’era una volta uno zoo.

In questo zoo c’erano mille animali, forse di più. Scimmie, pinguini, pappagalli, zebre, elefanti, ippopotami. Rettili, uccelli, animali che vivono al freddo, animali che vivono al caldo, animali che vivono alla luce ed altri che vivono al buio. E come nelle foreste, come in tutti gli zoo, come nelle fiabe e nei romanzi e nei cartoni animati… tutti gli animali si inchinavano al loro re imperatore.

Viveva tra le gabbie degli orsi e le vasche dei delfini. Sempre elegante, impettito, pettinato, pronto. Fiero. Autoritario. Era il leone.

Ma era un leone speciale: era un leone francese, di padre italiano, anzi napoletano. Era il leone Nap, e lo chiamavano Nap ‘o leone.

E teneva sempre uno strano cappello ed una zampa nell’orecchio.


NEL MONDO DEI VIVI

 

 

Un vento freddo, appesantito da piccoli fiocchi di neve, spazzava a folate le strade buie di Borgo San Donato. Torino, avvolta nella nebbia, sembrava ancora più tetra e diabolica quella sera. Dalla finestra di un palazzo pretenziosamente in stile si diffondeva una debole, giallognola luce.

Le stanza era arredata con mobili fatiscenti, rovinati in più punti, ed una lampadina nuda e polverosa penzolava da un soffitto le cui uniche decorazioni erano costituite da ampie chiazze di umidità. Il fruscio delle pagine che l’uomo stava sfogliando era il solo rumore percepibile nel silenzio.

Dalla vecchia agenda in similpelle blu, all’interno della quale era annotato con una grafia minuta ed ordinata un lungo elenco di nomi, si sprigionava odore di rancore stantio. Accanto ad ogni nome figurava una data ed un simbolo: a volte un cuore, a volte un sole, a volte una spada… Un piccolo, dettagliato campionario di torti subiti.

Presto avrebbe presentato il conto ai numerosi avventori che, nel corso degli anni, avevano scambiato la sua vita per una locanda d’infimo ordine, un luogo dove non spendere più di qualche spicciolo di tempo e dal quale andarsene senza salutare. E senza lasciare la mancia.

Antonino Calvaresi aveva ormai deciso: avrebbe accettato la sfida.

La sfida con se stesso. La sfida tra l’Antonino Calvaresi razionale, pacato, arrendevole ed il suo alter ego, l’Antonino Calvaresi impulsivo, saturo di lividi e cicatrici inferte dalla vita, e perciò vendicativo.

Quei mobili fatiscenti erano i pochi rimasti invenduti. Infatti, l’aver preso quella decisione, lo aveva portato a vendere più oggetti possibile, prima di quel suo ultimo atto. Venduti libri, stoviglie, mobili, lampadari… ed il vuoto della casa mostrava le macchie che lui non riconosceva se dovute all’umidità o alle lacrime.

Solo le pagine rumorose a spezzare il silenzio. Pagine di quella vecchia agenda in similpelle blu. E tutti quei nomi, con grafia ordinata e minuta… proprio come le azioni ed i gesti lenti e definitivi del suo lavoro.

 

Assanti

Ateni

Bettoli

Ciriaci

Delogu

Eraco

Foliana

 

…tutti in rigoroso ordine alfabetico. E scritto di lato: 17/6/69. Oppure 20/11/81. Immancabili quei simboli da setta satanica. Sole, sole, spada, sole, cuore, sole, cuore, spada… Un colpo di tosse smosse l’aria quanto bastò per far tornare indietro le pagine alla seconda copertina interna:

 

Antonino Calvaresi

Torino 23/05/1949 * Torino 11/11/2002

 

Subito sotto la didascalia una legenda:

 

cuore: corna

sole: toccarsi

spada: diceria

 

Si alzò di scatto e andò davanti a quell’unico e ultimo specchio rimasto in casa: “Ciao becchino torinese”, disse alla sua stessa immagine. “Ciao Tonino, ci siamo amico caro. Hai venduto tutto, hai inscenato tutto. Non vedi la tua ex moglie ed i tuoi figli da un pezzo, per tua scelta”. Si accese una sigaretta. “Da molto tempo non li vedi. Già. Li hai solo sentiti ed hai fatto questo regalo inscenando la vincita alla lotteria. Invece… solo… qui… hai incassato i soldi di libri, quadri, mobili… hai regalato loro il viaggio… ed ora sei solo… tu qui e loro a chilometri di distanza. Al Kremlino? O già alla Grande Muraglia? Che bellezza di regalo di un padre becchino a ex moglie e figli. E ora che siamo soli, a noi due”.

Gettò la sigaretta a terra e la calpestò, come stava per calpestare il suo passato ed i nomi scritti sull’agenda.

Si spogliò nudo, salì sul tavolo quasi a toccare con la nuca la lampadina, prese in mano l’agenda e, come un attore a teatro, voce impostata e petto in fuori, iniziò a declamare: “Assanti, 17/6/69. Era il mio primo giorno di lavoro, avevo vent’anni. Tutto in nero vestito, da buon becchino. Simbolo: cuore, ossia corna. Ti vidi mentre seppellivo tuo padre, che facesti corna. Ma t’ho uccisa tre settimane fa, lezione assimilata spero! Ateni, 10/7/82. Prima della finale ti dissi che avremmo vinto. Sole… toccarsi… Ti vidi che toccasti i tuoi testicoli, con le mani serrate nelle tasche. Ma vincemmo o no? Be’! Portavo così male? T’ho ucciso stamani…”. Andò avanti così, tutta la notte. Simboli, date, nomi. Spesso recitava con occhi lucidi di pianto.

Ormai erano le sei di mattina ed era arrivato alla “Z”.

“Taccagni, 8/12/91. Spada! Taccagni… quante dicerie… e Calvaresi litiga coi figli perché porta iella… e Calvaresi ha divorziato perché porta iella… be’… è stata dolorosa la tua morte? T’ho uccisa che era Santo Stefano, ricordi? Bene, e adesso… il fuori lista: Antonino Calvaresi, in data 11/11/02, ti sei accorto di dover mettere accanto al tuo nome il cuore, il sole, la spada. Già, perché ti sei accorto di portare iella e di essertela portata. Avevano ragione loro. Ormai sei diventato un caso famoso a Torino: sono dodici anni che la polizia ti bracca, ma, che iellati, non ti trovano!”.

Scese dal tavolo sudato ed esausto. Aprì il cassetto per prendere il fucile che aveva comprato. A parte per il viaggio ai suoi cari, aveva speso i soldi, accumulati dalla vendita dei suoi averi, tutti per quel pezzo da museo, un fucile antico, pregiato, da collezionisti. Era già carico. Si avvicinò al telefono e digitò tre numeri. “Centotredici? Buona sera, sono il serial killer… lo psicopatico che cercate da dodici anni. Ho fatto tutto per consapevole follia… Mi chiamo Antonio Calvaresi e sono il becchino del cimitero comunale di Torino. Non è vero che porto iella, anche se pure voi non avrete la fortuna di prendermi vivo, neppure dopo dodici anni di indagini.”

La voce era tremante e l’interlocutore, forse poco professionalmente, rimase spiazzato: “Aspetti… ma… ehm… dove si trova adesso… si calmi… Ricci, chiama il commissario, cazzo, sbrigati… Calvaresi… è ancora lì?”.

Tonino fece cadere la cornetta…

“Calvaresi, mi sente? …pronto?! …Ricci, cazzo, intercettami la telefonata, presto!!”.

Tonino si puntò la canna del fucile tra il mento e la gola e…

 

Il colpo assordante dello sparo riecheggiò nella fredda notte torinese e nella cornetta che penzolava.

Dopo mezz’ora polizia, carabinieri ed ambulanze erano sul posto.

Ma era troppo tardi… restava una pozza di sangue ed una vita morta come una locanda di infimo ordine.


VACANZA ANDATA MALE

 

 

Come fa una vacanza andata male a farmi incazzare poco e a farmi emozionare tanto? Non è da me.

Che tipo di tempo è quello in cui la clessidra della vita sfida la forza di gravità per equidistribuire i granelli tra il sopra ed il sotto?

Perché il triangolo formato dalle ossa delle tue clavicole mi sembra un aquilone che vola sopra il cielo dei tuoi seni? E’ l’imperfezione leggera del tuo sedere ed il tuo sorriso rettangolare che ti rende perfetta… o per lo meno perfetta per me.

So che non sarò come mio padre. So che emularlo avrebbe pro e contro. So che è solo un se il dire: “Se Serena fosse stata mia madre o mia nonna”. Non so che genitori saremo, ma so che genitori non vorremo essere.

E tu ci immagini coi capelli grigi a parlargli, ricordando i titoli dei libri che hanno tolto a suo padre la possibilità di avere sensi di colpa nel negargli uno sport diverso da quello? Io sì. Ci riesco ad immaginarci così. Ci riesco, perché mi hai ridato risa e lacrime e voglia di immaginare e realizzare altri sogni.

E lui giocherà ala.